(Pubblicato in « Corrispondenza Repubblicana », 5 giugno 1944)
di Benito Mussolini
La battaglia che durante otto mesi ha infuriato al sud di Roma, tra alterne vicende e leggendario eroismo, ha avuto ieri il suo epilogo. Le truppe multicolori, al comando dei generali angloamericani, hanno fatto il loro ingresso nell'Urbe.
25 luglio, 8 settembre, 4 giugno, ecco le dolorose tappe del calvario della nostra Patria: l'infame agguato perpetrato contro un regime che aveva dato all'Italia dignità e potenza, la ignominiosa capitolazione e la fuga di un re codardo e di un maresciallo rinnegato, l'invasione della capitale da parte delle orde australiane, canadesi, neozelandesi, senegalesi, marocchine. Tre date, tre eventi che hanno sonvolto la vita e il destino del nostro Paese.
La notizia dell'occupazione di Roma da parte dei nuovi barbari ferisce il nostro orgoglio di Italiani. Il Duce ha detto: « La caduta di Roma non fiacchi le nostre energie e ancor meno la nostra volontà tesa a realizzare le condizioni della riscossa ».
Per questi non intendiamo piangere sulla nuova sciagura che si è abbattuta sull'Italia, così come non vogliamo sminuirne la portata.
Tra i sentimenti che in questi momenti fanno ressa al nostro cuore, lo sdegno è il più forte di tutti. E amare parole di esecrazione si levano dai nostri petti a maledire coloro che barattarono con l'oro giudaico l'onore e l'indipendenza della Patria, coloro che macchiarono l'Italia di un'onta senza eguali, di una vergogna di cui saranno chiamati a rispondere di fronte al popolo italiano e di fronte alla storia.
Il pensiero che tra il Colosseo e piazza del Popolo bivacchino truppe di colore assilla il nostro spirito e ci dà una sofferenza che si fa di ora in ora più acuta. I negri sono passati sotto gli archi e sulle strade che furono costruiti ad esaltazione delle glorie antiche e nuove di Roma.
A noi non importa sapere se il piccolo re, che preferì consegnarsi al nemico piuttosto che dividere con la sua gente disagi e pericoli, si deciderà alfine a recitare l'ultimo atto di una tragicommedia in cui egli cinicamente scherza col destino del suo popolo e del suo Paese. A noi non interessa prevedere gli sviluppi della miserevole gazzarra inscenata da Napoli a Bari dai variopinti partiti che si contendono, con un accanimento degno di migliore causa, la sferza dell'invasore. No, tutto ciò è troppo meschino per sollecitare la nostra curiosità.
È invece l'oltraggio fatto a Roma, questa città sacra alla storia e alla civiltà del mondo, che ci brucia come un ferro rovente. È l'insulto fatto ai nostri morti che ci tormenta e non ci dà tregua, l'offesa senza nome fatta a tutti i nostri caduti, a quelli d'Africa e di Spagna, a tutti i soldati italiani che hanno combattuto contro gli eserciti delle plutocrazie e del bolscevismo, ai gloriosi mutilati e agli eroici feriti di tutte le guerre, alle innumerevoli vittime della furia devastatrice dei briganti dell'aria. È lo schiaffo dato alla Roma cattolica, alla capitale della cristianità universale dagli stessi uomini bastardi e criminali che distrussero la monumentale basilica di San Lorenzo, scoperchiarono le tombe del Verano, colpirono chiese, ospedali, cimiteri, opere d'arte in tutta la penisola: è questo che ci fa fremere e insorgere. Non potremo mai prestar fede alle manifestazioni di giubilo che la propaganda nemica, come al solito, tenterà di farci credere, perché siamo convinti che gli autentici romani hanno troppa dignità e fierezza per non odiare a morte coloro che li hanno perseguitati senza sosta dal 19 luglio 1943, attraverso un succedersi incessante di bombardamenti feroci e di spietati mitragliamenti, che avevano il solo obiettivo di affamare la popolazione e di ridurla alla miseria e alla disperazione.
No. I romani non possono aver dimenticato le tristi giornate del settembre, quando l'indegno sovrano li abbandonò alla mercè di un esercito ignobilmente tradito, che volle essere generoso per rispetto a Mussolini, ma avrebbe avuto il diritto di essere inesorabile nella rappresaglia e nella vendetta.
I romani, quelli degni di questo nome, ricordano quello che Mussolini volle e seppe fare di Roma durante il ventennio fascista. Essi sanno che, mentre il Duce riportò l'Urbe ai fastigi dell'impero, oggi l'ex-re consegna Roma alle truppe di colore.
I romani sanno che senza il tradimento Roma non sarebbe mai caduta nelle mani del nemico, perché l'Italia avrebbe ancora avuto il suo Esercito, la sua Marina, la sua Aviazione, da schierare a fianco delle intrepide divisioni germaniche, e non potranno mai tollerare che un solo Romano consenta a Vittorio Emanuele di apparire a quello stesso balcone dell'ex-reggia da cui, avendo a sé vicino Pietro Badoglio, il 10 giugno 1940 salutò la folla dopo la dichiarazione di guerra all'Inghilterra.
I romani e tutti gli italiani sanno che il ritorno a Roma dell'ex-sovrano, sotto la protezione delle baionette angloamericane, tra il disprezzo e lo scherno di tutto il mondo civile, precede l'arrivo degli agenti di Mosca, che sulle rovine accumulate dal tradimento vorranno costruire le basi della bolscevizzazione dell'Italia invasa, aggiungendo cosi alle distruzioni operate dagli indiscriminati bombardamenti la persecuzione, la deportazione, il terrore.
Gli italiani non nascondono a se stessi la gravità dell'ora che volge e hanno la coscienza di quello che Roma rappresenta nel mondo e quindi di quello che hanno perduto. Ma non si lasciano afferrare dallo sconforto e raccolgono il supremo monito del Duce, che li esorta a guardare all'avvenire con una volontà di resistenza e di riscossa che le avversità fanno più accesa e le difficoltà più salda.
Nell'ottobre scorso, Roma sembrava destinata ineluttabilmente al sacrificio. E fu l'indomito valore delle truppe germaniche, cui si affiancarono i marinai del Barbarigo, i paracadutisti del Nembo e i volontari della legione italiana S.S., i genieri, i contraerei, a barricare per otto mesi le porte dell'Urbe.
In questi otto mesi il popolo italiano si è temprato alla lotta e alla ricostruzione. Il fascismo ha attinto dalle sfavorevoli vicende nuovi motivi e nuove forze per conquistare nuovi traguardi, che stanno a dimostrare l'originale e perenne vitalità della rivoluzione mussoliniana.
La Repubblica Sociale Italiana ha gettato le fondamenta sicure della sua struttura politica e organizzativa. Nelle officine gli operai hanno intensamente lavorato, restando sordi ai vani appelli dei sabotatori venduti al nemico e ascoltando invece la voce solenne della Patria. Nei campi le masse rurali hanno fornito un'altra prova della loro sana e concreta operosità. Il 10 maggio ha segnato il clamoroso fallimento della manovra sovversiva condotta dalle forze antinazionali asservite agli interessi ebraico-massonici. Il provvedimento del Duce che concedeva agli sbandati la possibilità di riprendere il loro posto di lavoro e di combattimento nella Repubblica ha restituito alle attività della nazione decine di migliaia di italiani che il tradimento badogliano aveva disperso e disorientato. L'Esercito repubblicano ricostituisce, giorno per giorno, i suoi ranghi, con energie, spirito, armi e metodi completamente nuovi. Le divisioni italiane che in Germania stanno concludendo il severo addestramento fremono nell'impazienza di difendere il sacro suolo della Patria e di ricacciarne per sempre l'odiato nemico.
Verso Roma oggi devono essere dunque proiettati unicamente i nostri sforzi, la nostra fede, la nostra ansia di resurrezione.
Dinanzi alla disperata volontà di ripresa che ci infiamma, si pone oggi un'altissima meta: riscattare Roma, e, nel nome di Roma, l'Italia. Roma è stata in ogni tempo la fonte preziosa di ogni nuova nascita della nostra Patria.
Gli italiani che non hanno smarrito il senso dell'onore, gli italiani che non intendono restare sommersi sotto il peso della vergogna, gli italiani che non si rassegnano e vogliono invece ribellarsi all'avversa fortuna sapranno essere finalmente compatti nell'odio e nella vendetta contro il nemico, nell'amore verso Roma e verso l'Italia. Il grido di Garibaldi « Roma o morte » diventa oggi la parola d'ordine, il comandamento supremo dei veri italiani.