(Pubblicato in « Il Popolo d'Italia », 15 dicembre 1917)
di Benito Mussolini
La parola è brutta. Non importa. Ce ne sono di più brutte che hanno già da tempo diritto di cittadinanza nella lingua italiana. Ce ne infischiamo dei « puristi » che ringhiano davanti ai « neologismi ». Eterno conflitto fra la sensibilità vecchia e quella nuova! La trincerocrazia è l'aristocrazia della trincea. È l'aristocrazia di domani. È l'aristocrazia in funzione. Viene dal profondo. I suoi « quarti di nobiltà» hanno un bel colore di sangue. Nel suo blasone ci può essere dipinto un « cavallo di Frisia », una fossa di trincea, una bomba a mano.
Lanciare una bomba è un esercizio brillantissimo, anche quando vi scoppia fra le mani e vi costringe a pensare che forse è stata fabbricata da un imboscato negligente.
Ci sono tante qualità di bombe. Le Sype, le Besozzi, le B. P. D., le Tehrenit ecc. Sono eleganti. Molto chic.
Ce n'è una che ha una camiciola. Noi nel nostro gergo di trincea la chiamavamo la « signorina ». Si portavano le bombe nel tascapane, insieme alle scatolette di carne e al pane. Si gettavano o si gettano sul grugno degli austriaci. Bellissimo!
Non si capisce perché nessuno, in Italia, abbia mai preso l'iniziativa di fondare una scuola per addestrare i futuri soldati nel lancio delle bombe. Nelle quarte pagine dei giornali c'è molta pubblicità di imboscamento, a base di scuole per tornitori, motociclisti, chauffeurs; pubblicità che dovrebbe essere vietata. Ma vedrete che fra poco sorgerà anche una scuola per lanciare delle bombe.
Tutta questa divagazione si spiega. È la nostalgia del mestiere. Inoltre, la bomba, è un argomento. Passiamo.
C'è una nuova aristocrazia in vista. I miopi e gli idioti non la vedono. Eppure, questa aristocrazia muove già i primi passi. Rivendica già la sua parte di mondo. Delinea già con sufficiente precisione i suoi tentativi di « presa di possesso » delle posizioni sociali. È un travaglio oscuro, intenso, di elaborazione, che ricorda quello della borghesia francese di prima dell'89.
C'è un volume di Giovanni Jaurès, dedicato al sorgere, sull'orizzonte di avanti '89, della borghesia francese. È una lettura proficua. L'Italia va verso due grandi partiti: quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati; quelli che hanno combattuto e quelli che non hanno combattuto; quelli che hanno lavorato e i parassiti. I segni annunciatori di questo evento abbondano.
A Milano tutto il movimento di propaganda e di resistenza interna è nelle mani del Comitato di Azione fra i mutilati e gli invalidi di guerra. A Torino si è costituito un vero e proprio partito fra i « reduci dal fronte » con esclusione assoluta degli imboscati. A Bologna si annuncia la prossima pubblicazione di un giornale che avrà questo titolo: La voce dei reduci. Se c'è qualche anima livida che si proponeva la grave ed infame speculazione sui mutilati ed invalidi, deve sentirsi, oggi, totalmente delusa. I mutilati e gli invalidi della grande guerra non si mettono ai cantoni per impietosire il cuore e la borsa dei passanti colla esibizione della loro infermità. Non si prestano agli « imbonimenti » di tutti quelli che piangono sugli « orrori » della guerra, senza conoscerli.
Quale immensa forza morale c'è in questo atteggiamento patriottico dei reduci dal fronte.
Pensate al contrario. Fate il caso contrario, il caso « negativo » e ve ne convincerete.
Oggi, questi mutilati, questi invalidi, sono le avanguardie del grande esercito che ritornerà domani. Sono le migliaia che aspettano i milioni di reduci. Questa enorme massa — cosciente di ciò che ha fatto — produrrà inevitabilmente degli spostamenti di equilibrio.
Il rude e sanguinoso tirocinio delle trincee significherà qualche cosa. Vorrà dire più coraggio, più fede, più tenacia.
I partiti vecchi, gli uomini vecchi che si accingono, come se niente fosse, all'exploitation dell'Italia politica di domani, saranno travolti. La musica di domani avrà un altro tempo. Sarà un andantino sostenuto e non sarà esclusò un fortissimo con calore. Ci saranno anche molti diesis in chiave. È questa previsione che ci conduce a guardare con un certo dispregio tutto ciò che si dice e si fa dagli otri vecchi, ripieni di presunzione, di sacre formule e di imbecillità senile.
Sono ammirevoli nel loro candore quelli che si tengono ancora disperatamente aggrappati ai vecchi schemi mentali. È gente che perde il treno. Il treno passa e quelli rimangono sul trottoir della stazione, con la faccia smorfiata fra l'ebetismo e il dispetto. Le parole repubblica, democrazia, radicalismo, liberalismo; la stessa parola « socialismo » non hanno più senso : ne avranno uno domani, ma sarà quello che daranno loro i milioni di « ritornati ». E potrà essere tutt'altra cosa.
Potrà essere un socialismo anti-marxista, ad esempio, e nazionale. I milioni di lavoratori che torneranno al solco dei campi, dopo essere stati nei solchi delle trincee, realizzeranno la sintesi dell'antitesi: classe e nazione.
Anche qui già i segni rivelatori si scorgono, e non più tardi di ieri ne parlavamo a proposito dell'ambasceria vera e propria degli operai genovesi.
Ora, quelli che non combattono, quelli che — per motivi più o meno giustificati — non sono lassù, hanno l'obbligo — se veramente amano e di un amore disinteressato l'Italia — di non mai astrarre nei loro discorsi, nei loro propositi, nelle loro azioni dagli « altri » che soffrono e muoiono perché l'Italia viva.
Coloro che in undici battaglie avevano ricacciato l'Austria oltre l'Isonzo; coloro che hanno fermato Austria e Germania, Bulgaria e Turchia sul Piave, guardano, ascoltano, intendono.
L'Italia d'oggi è là. L'Italia di domani, anche.
Noi raccogliamo la passione dei combattenti e saremo con loro domani per il compimento delle supreme giustizie.