Saturday 3 March 2012

Discorso di Milano, 20 dicembre 1920

Il trattato di Rapallo

di Benito Mussolini

Io sono alquanto turbato e quasi pentito di avere accettato l'invito rivoltomi con tanta lusinghiera insistenza dalla vostra presidentessa signora Rizzioli. Perché io non sono oratore da cerimonia: ma piuttosto oratore da tempestosi comizi e vi confesso che mi trovo un po' a disagio davanti ad una assemblea come questa. Voi quindi perdonerete se il mio discorso sarà per avventura alquanto disordinato. Anche perché dopo l'eloquente discorso della signora Rizzioli e le belle parole della contessa Visconti non ci sarebbe proprio nulla da dire, in quanto che le cerimonie di battesimo non hanno abitualmente contorno di lunghi discorsi. Ma poiché questa è un'assemblea politica e ha luogo in un momento tipicamente politico della storia del nostro paese, mi consentirete una digressione sulla questione che in questo momento più profondamente appassiona la coscienza nazionale. Prescindo dal fatto elettorale che ci sta dinanzi. Il 15 maggio non è un arrivo: è una tappa; non è la fine di tutto il travaglio di elezione che turba il nostro paese in questo momento: è una fase di questo travaglio. E voi non credete che già io voglia raccomandarmi ai vostri indiretti suffragi. D'altronde voi potete certamente essere utili anche in questa contingenza, se porterete, attraverso gli inevitabili contatti che avete con l'umanità, maschile votante e elettorale, la vostra opera di persuasione.

Ma vi sono altre questioni che ci appassionano e che sono più importanti. Siamo all'indomani di un trattato di pace che non ci ha dato la pace. Intanto dico subito che nessun trattato di pace darà mai la pace definitiva. La pace perpetua di cui parlò in un celebre opuscolo il filosofo tedesco Kant era l'insegna di una osteria dove c'era un cimitero di croci. Or dunque tutti i trattati di pace non sono definitivi non sono scritti su tavole di bronzo: sono scritti tutti con gli inchiostri più o meno labili della diplomazia, e il trattato di Rapallo non fa eccezione a questa regola.

Il trattato di Rapallo è una soluzione bastarda di necessità. Avanti di condannarlo, come noi lo condanniamo, bisogna spiegarlo e comprenderlo. Spiegarlo e comprenderlo, prima di tutto con l'ostilità palese e indiretta degli alleati, con la incomprensione del mondo diplomatico americano, con la deficenza delle nostre caste politiche dirigenti. Anche questa deficenza della nostra classe politica dirigente deve essere spiegata. La spiegheremo pensando che appena da cinquant'anni, questo popolo che fu per quindici secoli diviso, ha il lusso di una storia comune e in cinquant'anni di storia non si può pretendere di realizzare quell'alto tipo di coscienza nazionale che è il privilegio di nazioni che da secoli e da secoli tali sono state.

Certamente questo non giustifica la deficenza degli uomini. Certamente vi sono uomini che devono essere portati alla sbarra del pubblico giudizio. Bisogna rifare, e lo rifaremo, il processo a tutta l'attività diplomatica della classe dirigente italiana.

Ma tutto ciò non può portarci a un giudizio meschino di fronte alla complessività degli avvenimenti.

Il trattato di Rapallo sarà revisionato come tutti i trattati usciti dalla grande guerra europea. Il trattato di Versailles - lo voglia o non lo voglia la Francia - è già in pezzi. Il trattato di Trianon, di Sèvres e l'altro di Saint-Germain lo saranno fra poco, ché avendo demolito un'Austria ne hanno costituite due: una al nord, la Cecoslovacchia, dove cinque milioni di boemi intendono dirigere una nazione che conta tredici milioni; e al sud la cosiddetta Jugoslavia; costruzione barocca e balorda, emanante dal Times e da un giornale italiano, essa è il trionfo della tesi panserbista, della tesi di Belgrado, che vuole accentrare in sé tutte le popolazioni slave del sud divise fra di loro da lingua, religione, costumi, storia e civiltà.

Il trattato di Rapallo non ci dà l'amicízia con la Jugoslavia. Questa era ed è una pietosa illusione. Basterebbe vedere quello che si è stampato a Belgrado dopo Rapallo per comprendere che quella gente non avrà mai per noi amicizia sincera. E la ragione è un formidabile equivoco; per noi il confine naturale, giusto, sacro e sacrosanto è alle Alpi Giulie; per la Jugoslavia il confine sacro, giusto, naturale e sacrosanto è all'Isonzo.

Ora, fra queste due concezioni così nettamente antitetiche, non c'è possibilità di compromesso. Tutta la stampa serba tiene un contegno di eccitazione e di provocazione contro di noi. Appena entrati nella Dalmazia sgombrata e nelle isole i Serbi hanno demolito sistematicamente tutto ciò che ricordava l'Italia.

Voi comprenderete che il problema dei rapporti fra l'Italia e la Jugoslavia rientra nel complesso della politica europea. Non potremo mai affrontare la questione dei rapporti italo-jugoslavi se prima non ci saremo liberati dall'egemonia del mondo anglo-sassone. Bisogna riportare tutte le piccole questioni nel quadro delle grandi. Fin che noi saremo presi alla gola dai nostri alleati per via del carbone, del pane e delle altre materie prime, noi non potremo avere che una relativa autonomia in materia di politica estera. Ma il giorno in cui questa soggezione economica sarà finita, allora noi, popolo di cinquanta milioni di abitanti, popolo in stato di sviluppo, popolo intelligente, laborioso e prolifico, che non abbiamo bisogno di atterrirci di fronte alle statistiche dello stato civile, così come fa la Francia, la quale vede la sua popolazione diminuita di quattro milioni di abitanti, noi potremo dire una parola decisiva in tutto il veniente periodo della storia europea.

Il problema si pone in questi termini: bisogna che gli italiani crescano in forza, civiltà e grandezza, sì che quando nella imminente nuova crisi della politica europea verranno in discussione i trattati noi si possa dettarne le condizioni a nostro favore; e non avvenga mai che siano gli jugoslavi, sostenuti dai loro alleati, a imporre le loro.

Ho detto e scritto che gli italiani della Dalmazia sono i più puri degli italiani, perché sono i più perseguitati, perché veramente ascendono un calvario di sacrificio e di martirio. Noi portiamo questa passione nei nostri cuori, la portiamo profonda e la vogliamo tramandare. Che cosa dovremo fare ora noi perché gli italiani dell'altra sponda non si sentano dimenticati e abbandonati? Molte cose: un'agitazione all'interno; fare conoscere la Dalmazia agli italiani (bisogna che cessi l'enorme ignoranza geografica degli italiani); fare conoscere la Dalmazia con pubblicazioni, con conferenze, con cinematografie, con volantini e manifesti; fare insomma tutto ciò che deve servire a orientare la coscienza italiana verso quella questione. Poi vengono le altre forme pratiche di italianità: mandare degli aiuti concreti a quei nuclei di italiani che si battono per mantenere acceso il focolare e aperte le scuole e pubblicare i giornali.

E soprattutto agire per liquidare la vecchia casta politica italiana. Può darsi che nel giudizio degli storici futuri la condotta di questa classe trovi dei giudici disposti ad attenuare la loro colpa. Ma noi che viviamo in questo secolo di passione, noi che sentiamo il bruciore e la vergogna, noi diciamo che questa classe politica dirigente ha fatto ed esaurito il suo compito.

Era la classe politica dirigente che cominciò con Cairoli, che regalò Tunisi ai francesi e finisce con l'uomo del « parecchio »; è una classe politica che non può più tenere il timone dello Stato in una nazione come l'Italia, dove ci sono delle minoranze frenetiche dell'orgoglio di dirsi italiane.

A questa trasformazione voi potete dare vasto contributo. Non è vero che la donna non abbia influenza nella vita politica nazionale. Io ora non voglio lusingarvi citando le donne che hanno saputo dirigere il destino dei popoli in una maniera più brillante degli uomini, ma è evidente che, se le donne vogliono, possono determinare degli stati di coscienza e provocare quel fatto strano e potentissimo che i filosofi chiamano l'imponderabile. Il socialista può asseverare che tutto si spiega col meccanismo dei rapporti di produzione e il positivista può venirci a dire che nell'universo quello che conta è il fatto bruto. Ma oggi le nuove correnti del pensiero hanno fatto tabula rasa di queste concezioni puerili. Nel mondo vi sono altri valori, che non misurano, che non si spiegano col materialismo storico. È il dominio della passione, dei sentimenti; di quegli stati d'animo che in un dato momento fanno andare gli individui al martirio e fanno marciare i popoli verso le più grandi epopee. Questi sono gli stati d'animo che voi potete formare con la vostra opera assidua, silenziosa, delicata, che circuisce piuttosto che fronteggiare, che cerca di persuadere, che giuoca, infine, le vostre carte: le carte della gentilezza, della cortesia e del fascino.

Voi, o legionarie di Fiume e Dalmazia, vi siete assunto un compito straordinariamente delicato e difficile. Noi fascisti stiamo realizzando un capovolgimento della coscienza nazionale; ma voi, vivendo in mezzo al popolo, sentite che il popolo teme che quando si parla di questioni nazionali si voglia riagitare ancora lo spettro della guerra. Ora non c'è bisogno di dire che noi non siamo dei guerrafondai, ma nemmeno dei pacifondai.

La vita esula da questi assoluti. È criminale volere sempre la guerra, ma qualche volta può essere criminale volere sempre la pace. Tutto ciò dipende da un complesso di circostanze storiche e di situazioni sulle quali è inutile discutere. Vi dicevo dunque che voi vi siete assunto un compito delicato e difficile, che è quello di creare in Italia lo stato d'animo dalmatico e adriatico. E mi spiego. Dal '70 in poi ci fu un particolare stato d'animo in Italia, al quale collaborarono tanti elementi. Chi da studente non ha partecipato nei begli anni della giovinezza alle dimostrazioni pro Trento e Trieste? L'Università, il giornalismo, la Camera, il Senato e il Partito Repubblicano agitavano sempre il binomio Trento e Trieste. Molti non sapevano di preciso se Trento e Trieste fossero vicine o lontane; sapevano che erano due città sottoposte all'Austria. Ma lo stato d'animo, in tutta la nazione, esisteva; cioè una vasta parte della coscienza nazionale era orientata come stato d'animo verso queste due città sorelle. Peccato che anche allora non si sia parlato di Fiume e della Dalmazia! E per quanto riguarda la Dalmazia, noi, pur essendo rispettosi ammiratori di Mazzini, osserviamo che Mazzini non ha mai parlato di una Dalmazia slava; ha parlato di una Dalmazia italo-slava. E d'altra parte resta a domandarci, dopo cinque anni di guerra mondiale, dopo enormi sacrifici dell'Italia, dopo che i battaglioni italiani hanno conquistato Monastir alla Serbia e la Marina italiana ha salvato l'esercito serbo, resta, dicevo, a domandarci se oggi il grande esule riconfermerebbe il suo giudizio. Che cosa importa che nella Dalmazia gli italiani siano minoranza? Prima di tutto bisogna vedere come si è addivenuti a creare questa situazione di minoranza. Bisogna fare le somme delle diaboliche persecuzioni della politica viennese, che era matricolata nel sistema di dividere i popoli. E se si potesse scrivere la storia della Dalmazia, e si sta scrivendo e si scriverà, si vedrebbe che la snazionalizzazione della Dalmazia è stata opera perfida e criminosa del governo di Vienna. Nel 1880 tutte le città della Dalmazia avevano dei sindaci italiani. Ultimo sindaco di Spalato fu quello chiamato « il mirabile podestà », Antonio Bajamonti, il che vi dice che anche Spalato era trent'anni fa italianissima.

D'altra parte l'elemento qualificativo non conta per nulla? Se noi siamo più civili, è logico che i meno civili siano annessi a noi e non già che gli altri annettano i più civili.

Per l'opera che voi dovete compiere non è necessario che voi facciate della politica di piazza e di violenza. Del resto la donna che vi guida è fine ed equilibrata. Sa bene quello che si deve fare e quello che non si deve fare. E sa stabilire i rapporti di possibilità e di necessità che devono intercedere sempre fra gli interessi del tutto e gli interessi della parte, fra gli interessi della nazione italiana e gli interessi di una piccola parte della nazione italiana. I problemi nazionali non sono ancora risolti; ne abbiamo al nord, a oriente, a occidente; qui mi sia concesso di deplorare che oggi un grande giornale milanese dica che Napoleone non è nato in terra italiana quando si sa benissimo che la Corsica è terra italiana.

Se voi legionarie manterrete vivo questo stato d'animo avrete assolto al vostro dovere. Io so che i risultati non saranno immediati e appariscenti. So benissimo che incontrerete delle difficoltà. Le difficoltà del misoneismo, dello scetticismo, di quella superficialità che è una caratteristica di qualche elemento maschile italiano. Ma non vi formalizzate di ciò. Quando il problema verrà e il problema della Dalmazia sarà posto di fronte alla coscienza nazionale, voi, avendo tenuta accesa la fiamma, avrete il sovrano privilegio che è quello di dire : oggi tutto il vasto fiume del popolo italiano segue, ma pochi mesi fa noi eravamo il nucleo dell'avanguardia, appartenevamo alla falange dei pionieri, di quelli che tracciano il cammino, che marciano in prima fila, che non chiedono tanto di vincere quanto di combattere. E sarà vostra la grande soddisfazione del dovere compiuto. E davanti al popolo che risolverà il problema dalmatico in senso italiano, voi agiterete il vostro gagliardetto e direte: siamo fiere della nostra opera. Questo è il gagliardetto della laboriosa vigilia; è giusto che sia il gagliardetto della trionfale vittoria.