(Pubblicato in « Il Popolo d'Italia », 17 giugno 1937)
di Benito Mussolini
Mattina dell'8 marzo dell'anno XV, sull'altipiano della vecchia Castiglia, flagellato dai venti, pietroso e nudo come il Carso della guerra mondiale. Trenta chilometri di marcia di avvicinamento, sotto il nevischio e con le uniformi adatte al mite clima mediterraneo di Malaga. Molte notti passate all'addiaccio. Quando i primi plotoni dei legionari scattano, il termometro segna cinque gradi sotto zero e il cielo è coperto da nubi di tempesta, che impediscono alla meravigliosa — ripetiamo meravigliosa! — aviazione legionaria di inalzarsi in volo. Prima domanda: si poteva ritardare l'azione per attendere giornate migliori? Certo, ma qualsiasi variante a piani stabiliti nel tempo e nel modo, pone delle nuove incognite, presenta difficoltà e complicazioni. Era lecito anche prevedere che il maltempo non sarebbe durato oltre il ragionevole, quantunque nelle Sierre del centro tutt'affatto continentale della Spagna la stagione invernale sia particolarmente rigida e lunga. Per disporre di una giornata ideale, quanto sarebbe stato necessario attendere?
I legionari italiani ebbero da affrontare un primo terribile nemico: gli elementi. Ciononostante essi travolsero nelle prime giornate tutte le difese rosse, presero d'assalto una posizione dopo l'altra, fecero letteralmente « rotolare » reparti e battaglioni di miliziani, l'avanzata raggiunse in profondità ben quaranta chilometri dal punto di partenza: le avanguardie si attestarono nei dintorni di Guadalajara. Tutto ciò accadde con rapidità fulminea, marciando nel fango, sotto il nevischio, con rifornimenti aleatori di viveri, senza appoggio sistematico di artiglierie o di carri armati.
II Comando franco-russo di Madrid comprese il pericolo mortale rappresentato dalla perdita di Guadalajara. Qualora i legionari si fossero impadroniti di questa piccola ma strategicamente importantissima città, Madrid avrebbe dovuto capitolare. La calma regnava in quei giorni su tutti i fronti spagnoli e specialmente su quello sud-est di Madrid, dove l'offensiva nazionale aveva ottenuto successi di semplice natura tattica. I legionari non potevano e non dovevano che contare su se stessi. Il Comando franco-russo poté quindi ammassare le brigate internazionali con una forza valutata tra i quindici-venti mila uomini, bene comandati, potentemente armati, e lanciarle al contrattacco.
La battaglia ebbe allora momenti durissimi. Alcune posizioni passarono più volte dai rossi ai legionari e viceversa. Un battaglione di Camicie Nere, che aveva perduto i collegamenti vide cadere quasi tutti i suoi ufficiali. Ci furono le oscillazioni, le mischie, il disordine furioso e inevitabile che in tutte le battaglie accompagna gli attacchi e i contrattacchi all'arma bianca. Nel bosco della Villa Ibarra si lottò coi pugnali; gli episodi di eroismo ai quali assistettero osservatori stranieri furono moltissimi e splendidi. Il carattere assolutamente offensivo che i comandi avevano impresso all'azione, aveva provocato sulle immediate retrovie l'intasamento degli autocarri carichi di Camicie Nere che avrebbero dovuto sostituire la prima divisione impegnata ormai da una settimana. Ma la operazione del cosiddetto « scavalcamento » delle divisioni, che sembra abbastanza facile sulla carta, non lo è altrettanto nell'inferno della battaglia. Così accadde che le colonne ferme sulle « carretere » o meglio sulla unica « carretera », cioè strada rotabile esistente, fossero facile bersaglio di ondate successive dell'aviazione da bombardamento e da caccia bolscevica, che utilizzava, fino alla notte, i vicinissimi campi di Madrid, mentre quelli dei nazionali erano molto lontani e, ciò che è più grave, essendo campi di fortuna, impraticabili.
Fin qui il Comando non aveva commesso errori, se non di circostanza; ma ad un certo punto diede l'ordine alle truppe di retrocedere e questo fu un errore, un grande errore. Lo stesso Comando lo ammise pochi giorni dopo, effettuato un più calmo esame della situazione: i legionari italiani si erano battuti da leoni, ma non erano stati battuti. Ragioni obiettive per ripiegare non ce n'erano. Si trattava di superare un momento di crisi di natura morale e che riguardava i comandi. Le truppe si consideravano vittoriose. Inoltre c'erano migliaia di uomini di riserva che non erano stati minimamente impegnati. I legionari di un generale che ha dato prove di coraggio sino alla temerarietà, il generale che i suoi legionari hanno battezzato « barba elettrica », erano impazienti di muoversi e di lanciarsi, ma dovettero obbedire al movimento generale di ripiegamento. Dei 40 chilometri dell'avanzata, 20 rimasero tuttavia in possesso dei legionari.
Ottenuto lo scopo di allontanare l'immediata minaccia su Madrid, i rossi non osarono prudentemente spingersi al di là. Essi avevano perduto oltre cinquemila uomini. La battaglia dei dieci giorni si esauriva così il 18 marzo e su quel tratto di fronte da allora regna la stasi della guerra di posizione.
I morti legionari non erano stati ancora sepolti, i convogli dei feriti erano ancora in viaggio verso gli ospedali, quando la stampa antifascista internazionale scatenò la sua vituperevole campagna di invenzioni e di calunnie. In questa impresa brigantesca primeggiò la stampa inglese, senza eccezioni di sorta, e tutta la stampa francese di sinistra. Lo scacco di un battaglione diventò una disfatta. Un ripiegamento imposto da un Comando e che si svolse in ordine quasi perfetto, fu bollato come una catastrofe, furono nell'inchiostro « suicidati » dei generali che sono vivissimi, si trassero da un episodio generalizzazioni offensive per tutto l'Esercito italiano, dimenticando quel ch'esso aveva dato di contributo risolutivo alla vittoria degli Alleati nella guerra mondiale; le jene in sembiante umano si gettarono sul sangue purissimo della gioventù italiana come se fosse whisky e perdettero ogni residuo di pudore, come fanno le canaglie e i vigliacchi quando la paura è passata. Noi abbiamo raccolto con diligenza tutte queste pubblicazioni perché un giorno ci serviranno.
Oggi, dopo tre mesi, si leggono diverse valutazioni e giudizi più equanimi. Si parla tutt'al più di un « insuccesso », che non poteva avere e non ha avuto conseguenze di carattere militare, un « insuccesso » che la speculazione antifascista è riuscita a gonfiare per un momento, onde rialzare il morale depresso delle masnade bolsceviche sul fronte spagnolo e sul fronte della III internazionale. Più che di un insuccesso, deve parlarsi di una vittoria italiana, che gli eventi non permisero di sfruttare a fondo.
Ma ben al di sopra di questi, forse tardivi per quanto obiettivi riconoscimenti stranieri, sta l'azione dei vivi, dei legionari, che, successivamente, sul fronte di Biscaglia, hanno compiuto azioni degne di storia. Anche per Bermeo la turpe canea della stampa antifascista abbozzò un tentativo di speculazione, ma i fatti lo stroncarono immediatamente con scorno e vergogna di coloro che lo avevano osato.
Ora, ben più alto e solenne parlano i morti. Uomini di tutti i paesi non insensibili alla bellezza di chi muore per un ideale, ascoltate questa sacra testimonianza come la ascoltiamo noi, in reverente silenzio!
Nella battaglia del marzo i caduti fascisti furono centinaia e centinaia e ben duemila i feriti. Il fascismo, che ha abituato gli italiani a vivere una vita di ardimento e di verità, non ha taciuto le perdite, ma ha pubblicato in questi giorni i nomi, additandoli alla riconoscenza della nazione e alla esaltazione vendicatrice delle camicie nere. Dove, quando, come non è oggi possibile dire. Ma una cosa è certa; certa come un dogma di fede, della nostra fede: anche i morti di Guadalajara saranno vendicati.