Thursday 8 March 2012

Tradizione e rivoluzione

(Pubblicato in « Gerarchia », 1931)

di Antonio Bruers

In una recente polemica, è stato sfiorato un tema fondamentale che può essere qui trattato senza entrare nel merito della discussione già esaurita. Il tema è questo: quali sono i rapporti di un regime rivoluzionario col passato della nazione in cui la rivoluzione stessa è stata effettuata? Un regime rivoluzionario deve, come radicale palingenesi, considerare la propria azione e la propria missione nettamente scisse dal passato, o può e deve considerarsi legato in continuità con l'epoca precedente? Non mancano coloro i quali credono di poter rispondere adeguatamente con un semplice sì o con un semplice no, ma la questione merita di essere esaminata nella sua reale complessità.

Innanzi tutto, prima di risolvere il problema dal punto di vista della rivoluzione, occorre precisare i valori e le leggi storiche della nazione, che qui possiamo anche considerare sinonimo di stato.

Lo stato si distingue dagli individui e dagli enti che lo compongono appunto per la caratteristica di esistere sopra e di là degli individui. L'individuo come cittadino è mortale; lo stato è immortale; quindi lo stato è o deve essere, l'elemento di continuità della nazione.

Uno stato che non senta di costituire la continuità delle generazioni precedenti è incapace di creare un lungo e fecondo avvenire. Basta rivolgere uno sguardo superficiale alla storia, per avvertire che i regni e gli imperi più duraturi furono quelli che più profondo ebbero il senso delle origini, e della tradizione e identificarono il rispetto verso le leggi col culto degli antenati.

Quando un grande poeta barbaro disse dei romani ch'essi costruivano per l'eternità, alluse, implicitamente, al senso di continuità storica di quegli antichi padri, la più alta espressione dei quali, il Diritto, ebbe, appunto, per fondamento essenziale il principio della conservazione, cioè della tradizione. Nè, a confortare l'assunto, occorre citare l'esempio dell'impero inglese, il quale se non avesse altre somiglianze con l'impero romano, una certamente ne offrirebbe: quella di avere continuamente creato nuove leggi e nuovi costumi senza soluzione di continuità con le più antiche leggi e coi più antichi costumi.

Ritenuta assiomatica la provvidenzialità della conservazione, si deve perciò concludere che la rivoluzione non ha i suoi diritti? Evidentemente no. Le soluzioni sommarie del problema che ho presentato all'inizio, nascono da un'errata impostazione del tema.

In realtà, il problema non consiste nel chiedersi se la rivoluzione deve negare radicalmente il passato, tutto il passato (cosa assurda, perchè un gigantesco Tamerlano quand'anche potesse distruggere tutti i monumenti, tutte le opere, tutti gli scritti del passato, non riuscirebbe mai a distruggere tutti i cervelli umani, nei quali il passato esiste con stratificazioni spirituali identiche a quelle geologiche); ma consiste nel chiederai che cosa del passato deve essere abolito per fare luogo alle creazioni dell'avvenire.

Nella storia millenaria di una razza, di una nazione, di uno stato, esistono alternative di grandezza e di decadenza, dì verità e di errori, proprio nella stessa misura, e, forse, grazie alla stessa legge per la quale esistono nel cielo la luce e le tenebre e nella natura la primavera e l'inverno, la nascita e la morte.

Si può dire che il sommo problema di un regime rivoluzionario consista precisamente nel determinare ciò che del passato deve essere distrutto e ciò che deve essere conservato. Si può errare nel troppo distruggere, ma si può anche errare nel troppo mantenere. Nel saper selezionare il passato mortale dal passato immortale, trovando il giusto punto di equilibrio e di creazione, consiste la pietra di paragone degli statisti che un'epoca rivoluzionaria esprime dal proprio seno. Se molti regimi conservatori caddero per aver voluto troppo conservare, molti regimi rivoluzionari non ressero per aver voluto troppo distruggere. Queste premesse teoriche sarebbero troppo facili se io evitassi di riferirle a una pratica applicazione nei rapporti col fascismo.

Fortunatamente per noi, il fascismo costituisce una chiara dimostrazione dell'accennata legge storica: esso si è inciso profondamente nella vita della nazione appunto perchè il suo capo ha saputo assommare e fondere in esso, con felice armonia e profondo equilibrio, le diverse anime che contorsero a formarlo, e le mentalità spesso antagonistiche che sono, come egli stupendamente disse di recente: avverse e non lontane.

Mentre nel campo sociale il fascismo riveli utenti e orientamenti modernissimi, nel campo della spiritualità nazionale ha rievocato grandezze, norme ed usi antichi, e non solo non ha ripudiato, ma si è ricollegato all'Italia di Cavour e di Garibaldi.

La caratteristica della fusione delle tendenze più varie e contrarie, imperialismo e corporativismo, riconoscimento dei valori cattolici e dottrina dello stato totalitario, è talmente fondamentale da disorientare gli avversari i quali non hanno ancora risolto il problema se il fascismo debba essere combattuto come reazionario o come rivoluzionario.

Una volta stabilito che il fascismo non ha ripudiato il senso della continuità col passato e della solidarietà con le generazioni precedenti, non si deve concludere che essa abbia accettato tutto il passato, tutta l'operi delle generazioni precedenti. Qui vi è tata anzitutto un'evidente frattura storica, segnata dalla marcia su Roma, e seguìta da un'opera di selezione, soprattutto sensibile nei rapporti col periodo storico che dal risorgimento propriamente detto (1870) punge sino al maggio 1915 o, se si vuole, all'ottobre 1922.

Che il fascismo costituisca una radicale reazione contro gli spiriti e le forme dell'Italia di Depretis, di Giolitti e di Nitti, — è cosa discutible: questa è stata la sua forza; questo sarà il suo vanto. Ma ciò non significa che il fascismo, pur nel creare una soluzione di continuità, abbia per questo ripudiato tutto il passato. Anche quando s'invoca l'intransigenza rivoluzionaria contro il regime così detto umbertino, non bisogna credere che con ciò si debba ripudiare tutta l'Italia del cinquantennio che precede il Fascismo.

Perchè non tutta l'Italia dei regimi di Depretis, di Giolitti e di Nitti fu depretiana, giolittiana e nittiana; perchè se vi fu pavidità nella politica estera, vi furono anche gli irredentisti e i nazionalisti; perchè se vi fu mancanza del senso di espansione, vi furono anche gli audaci e i martiri del colonialismo; perchè se vi fu una plebe che vegetò miseramente sul suolo patrio, vi furono anche le masse organizzate e coscienti che risposero all'appello delle solidarietà materiali e ideali, in nome di una rinnovazione latente; e se vi fu infine un'Italia disposta alla neutralità, vi fu anche un'Italia che seppe imporre il ventiquattro maggio; se vi fu un'Italia che ostentò la paura della fame, vi fu anche un'Italia che rispose con la marcia di Ronchi.

Nella vita secolare di uno stato non esistono ragioni di totale ripudio di un'epoca storica, ma forse e soltanto ragioni per il ripudio di una classe dirigente. Non esiste momento storico, per quanto umile e vile, che non sia accompagnato da uomini che riscattano, di fronte ai figli, le umiltà e le viltà del momento. E questi sono gli uomini ai quali i figli debbono riferirsi, questi gli uomini che la generazione successiva deve considerare come i legittimi rappresentanti della nazione di fronte al futuro. Il fascismo, anzi che indugiarsi a criticare l'Italia giolittiana e nittiana, deve dedicarsi a illustrare ed esaltare l'Italia della guerra di Libia, dell'intervento, di Fiume, e della marcia su Roma. Cè un auto-deprezzamento storico dal quale dobbiamo guardarci non meno rigorosamente, che dalla vuota boria sciovinista. Porro unum est necessarium: salvare ed inalzare al cospetto della nostra coscienza, prima ancora che al cospetto degli stranieri, il senso della continuità storica dello stato, della nazione, della razza, onde Machiavelli, nel momento stesso in cui descriveva l'Italia « senza capo, senz'ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa », si volgeva alla storia di Roma, cioè al passato, cioè alla tradizione, per profetare e preparare l'Italia dell'avvenire.