Thursday, 8 March 2012

Tradizione e rivoluzione

(Pubblicato in « Gerarchia », maggio 1927)

di Camillo Pellizzi

Tra quelli che pensano e scrivono, oggi, di questioni politiche o affini alla politica, si fa spesso ricorso ai due concetti, di tradizione e di rivoluzione, come a due temi obbligati dai quali debbano derivarsi tutte quelle variazioni, considerazioni, affermazioni, che allo scrittore piaccia comunicare al suo pubblico. Si dice: « il fascismo è rivoluzione, dunque...»; oppure: « il fascismo è tradizione, dunque...». E, nell'un caso come nell'altro, si crede in buona fede che la deduzione discenda dalla premessa per un vincolo di necessità per lo meno logica, e si crede pertanto di aver dimostrato esaurientemente l'assunto. Questo, se fosse solo un vezzo dell'espressione, una maniera come un'altra di dar forma a un pensiero di cui si vogliono convincere i propri lettori, sarebbe ancora un piccolo male; ma è anche un mal vezzo del pensiero medesimo, e denuncia la fiacca tendenza a pensare secondo linee tracciate, e pertanto con la minore fatica possibile.

Bisogna mettere in chiaro che quelle due parole non sono nè precise, nè ricche di un contenuto ideale in alcun modo definibile. Non dovrebbero mai, quindi, essere usate nemmeno genericamente per determinare una qualsiasi tendenza pratica o un orientamento del pensiero; chè il loro uso può portare confusione e vaghezza là dove altrimenti non sarebbero, ma non si dà mai il caso che dove è oscurità esse portino luce.

Prendiamo la parola tradizione. Che vuol dir mai? Un qualcosa che ci è tramandato da chi venne prima di noi. Chiediamoci ora: ha un valore qualsiasi, in sè, quello che ci è tramandato da chi venne prima di noi? La più semplice riflessione basterà a convincerci che non ne ha; che la più grande opera d'arte del passato, o la più savia norma di condotta, sono vane e morte cose di per se stesse, ma importantissime solo ove la nostra partecipazione dia ad esse quella attualità e quella vita di cui altrimenti mancherebbero senza rimedio. Sono perciò queste cose morte, le quali partecipano della vita di noi vivi; e non il contrario. Se, dunque, mi si vuol dimostrare che un'opera d'arte è bella, o che una norma pratica è giusta e buona, non ci si dovrà mai appellare ad una tradizione che esiste già, bensì bisognerà farla esistere, questa tradizione, col persuadere il mio animo alla bellezza o alla bontà della cosa di che si tratta. Nella sfera del pensiero politico, poi, questa verità che noi enunciamo dovrebbe assunta da ogni opinante come un assioma imprescindibile; poichè non è chi non veda il rischio a cui ci si mette, se si voglia dare o negare aprioristicamente un qualsiasi valore ad un postulato, semplicemente perchè rientra nella tradizione, o perchè non vi rientra affatto. Là infatti non si parla di cose già accadute, ma di cose da fare; ora, il fare non si muove nel vuoto, ma nel pieno di tutto quello che si può dire il fatto; ma il problema dominante del politico è sempre quello del da fare; e se egli ragiona ponendo il fatto come termine determinante del da fare, egli inverte i due termini essenziali della questione, pone il carro davanti ai buoi, e non conclude a nulla; in realtà tutti i grandi politici sono uomini che hanno costantemente imposto il fare al fatto, che hanno spezzata la schiavitù del fatto con l'originalità del fare. Sono, per usare una parola estremamente impropria, dei rivoluzionari.

Parola, quest'ultima, estremamente impropria; per ragioni corrispondenti a quelle che ci hanno condotto a negare la validità della parola tradizione. La parola rivoluzione sarebbe già impropria, per l'uso corrente, se la si accogliesse secondo l'accezione etimologica, ancor oggi in uso in certi rami della scienza: come passaggio attraverso le fasi di un ciclo circolare, ossia mutamento destinato a ritornare al suo punto di partenza. È chiaro che nell'uso comune s'intende tutt'altra cosa. Si dice che un qualunque fatto è rivoluzionario, per intendere ch'esso trasforma la realtà in un senso del tutto nuovo. La vacuità della parola è dimostrata facilmente in entrambi i casi: nel primo caso essa allude a un esatto ritorno ciclico, ossia ad un'astrazione geometrica non mai corrispondente alla realtà; nel secondo caso, non dice nulla, perchè qualunque azione, in quanto azione, è sempre una trasformazione della realtà in un senso del tutto nuovo. Tutto ciò che si fa essendo dunque una rivoluzione, accade che questa parola, comunque usata nella sfera delle cose pratiche, sia sempre un truismo, amenochè non le si voglia dare un valore puramente coloristico, o enfatico.

Se tutto è rivoluzione, nulla è rivoluzione. Ossia, la realtà c'è, e ogni nostra opera vi porta un contributo del tutto nuovo, ma nè la scardina dalle sue basi nè la ricostruisce fino alla sommità. Concepire l'azione singola, ut sic, quale eterna creatrice o ricreatrice di tutta la realtà, non è che un arbitrio fantastico. La realtà, l'universale realtà, è una categoria del pensiero riflesso, ed ha appunto per sua caratteristica quella di restarci davanti incommossa, checchè noi vogliamo e facciamo in un determinato momento. L'errore fondamentale di tutta la rivoluzione francese, e della mentalità in essa confluente e di quella da essa derivante, è ben questo: di pensare tutta la realtà come un qualcosa di erroneo, che vada corretto, da cima a fondo, secondo criteri dettati all'uomo dalla sua ragione. Ora, se la ragione dice qualcosa di serio all'uomo, è ben questo: che la realtà non è nè vera nè falsa, nè giusta nè ingiusta, nè buona nè cattiva; ma è quello che è. E perciò appunto ognuno di noi si industria di agire, per contribuire anch'egli a suo modo e secondo i suoi motivi a questa cosa terribile ma familiarissima, che è la realtà. La quale dunque è sempre tutu fatta, ed è sempre tutta da fare; ma, in quanto realtà, è fatta, e non c'è rimedio; mentre il fare, qualunque minima cosa si faccia, è di una novità tato coelo rivoluzionaria, perchè appartiene a un ordine diverso, e deve giustificarsi in base a criteri interni a se stesso, e non riferibili alla realtà. Erra chi, nell'azione, vuole a ogni costo ispirarsi alla realtà (tradizionalismo), come chi vuole a ogni costo reagire alla realtà (rivoluzionariamo); errano, non a danno della realtà (la quale è come quel morto che, in terrogato, non rispose), bensì a danno e scapito della loro propria azione.

Prendiamo qualche caso, a dimostrare come questa chiacchierata che precede non tocchi una questione di pura terminologia. Taluno pensa la chiesa cattolica come un monumento tutto costruito di tradizione e di autorità; e l'autorità, in essa, si esplicherebbe soprattutto come una specie di guardia stabile della tradizione, contro tutto ciò che si faccia o che si tenti di nuovo. Ed ecco il motivo di certi esteti della religiosità: torniamo all'antico, torniamo alla tradizione, torniamo alla chiesa di Roma! Altri cita l'esempio dei modernisti, cui male incolse. Ma ai modernisti incolse male, non perchè essi fossero moderni, bensì perchè erano modernisti; ossia cadevano nello stesso errore da cui fu viziata la mentalità della rivoluzione francese. E la Ecclesia fidelium, nel più ortodosso dei significati, è proprio una comunità di uomini vivissimi ed attivissimi; non è realtà se non in quanto è azione (nel più largo senso), cui presiede ed ispira il divino spirito, il quale non avrebbe proprio ragione di occuparsene, se si dovesse trattare di una faccenda oramai conclusa e definita per sempre. E a che servirebbe, per non dir d'altro, la infallibilità del pontefice, se la chiesa non dovesse essere un organismo vivo, e quindi perpetuamente nuovo, e che ogni giorno si presenta come un problema nuovo a se stesso? Entrare in questa chiesa non significa dunque tornare all'antico, bensì aver il coraggio di andare verso il nuovo, assumendone una responsabilità morale ben più definita e concreta.

Gli esempi politici non ci mancheranno. Del fascismo taluno ha detto che era una rivoluzione; ma poi si è osservato che esso è pieno di operoso rispetto per certe tradizioni. Allora si è venuti a definirlo così: una rivoluzione tradizionalista. Che non vuol dir nulla, non perchè i due termini si escludano a vicenda, ma perchè sono entrambi troppo ovvii per sè presi, ed ovvio è ansile il loro accoppiamento. Ogni movimento dell'uomo, infatti, è una rivoluzione tradizionalista.

Nel fascismo, c'è chi ha gravato l'accento sull'aspetto rivoluzionario di esso, per giustificare questa o quell'altra iniziativa del governo o di singoli, le quali invece dovevano giustificarsi di per se stesse, ossia per la loro coerenza e la loro efficacia al raggiungimento di determinate finalità. In tempi più recenti, la parola tradizione è stata maggiormente in onore. Taluno ha voluto farne la base di una dottrina filosofico-politica del fascismo; si è così avvertito come questa parola fosse in se stessa povera di significato, e vi si è aggiunta la specificazione: italiana. Messisi per questa via, è parso di poter andare assai lontano. È facilissimo infatti enumerare tutte le cose che rientrano nella tradizione italiana; ma è più difficile definire quelle che non vi rientrano. La stessa riforma protestante si potrebbe ricollegare a qualche tradizione italiana anteriore a Lutero e a Calvino. Se invece si vuole definire il fascismo, come taluno ha fatto, controriforma; e non in un senso generico (quale mi sembra attribuirgli il Soffici) bensì specifico, sociale, religioso e filosofico, allora bisognerà accettare anche tutte le altre tradizioni che alla controriforma si riferiscono, ossia le tradizioni di un'Italia divisa e debole e corrotta quale non fu mai la peggiore, né prima né poi.

Ho sentito parlare di tradizione anche in materia di organizzazione corporativa dello stato. Qui, spero si sia trattato soltanto di divagazioni generiche, a sfoggio di erudizione; e i nomi degli uomini che sono preposti a questa gelosa attività dello stato mi dànno affidamento che essi non si lasceranno sviare dal preconcetto dei precedenti storici. I quali possono dimostrare tutto ma in realtà non dimostrano nulla; e ogni nuova legislazione deve sempre basarsi principalmente sulle circostanze attuali e sulle finalità che si vogliono raggiungere. Così pure è molto rassicurante vedere come quegli uomini si dimostrino ormai affatto liberi dal preconcetto rivoluzionario.

Del quale ha fatto la più arguta interpretazione il mio amico Longanesi, con questo suo sillogismo a catena: le rivoluzioni si giustificano di per sè, e non debbono quindi pagare a nessuno i conti per ciò che hanno fatto o per ciò che hanno distrutto; il fascismo è una rivoluzione; io ho pubblicato un giornale della rivoluzione fascista; dunque, io non debbo pagare il conto del mio tipografo!

Anche nel campo artistico e letterario quelle due parole hanno fatto e continuano a fare dei guasti. Ad esempio, Mussolini ha detto: « il regime fascista trae dal passato e dal presente le energie per balzare incontro al futuro ». Giusta sentenza, non solo per il fascismo ma per ogni processo della azione, la quale sempre muove, per così dire, coi piedi sopra il terreno di una realtà passata e presente. Ma ecco, altri miei amici si fanno forti di questa affermazione del Capo in una loro polemica, nientemeno!, contro i futuristi; e ne traggono il corollario: dunque, futurismo significa antifascismo!

Senza entrare nel merito di quella polemica, si può facilmente osservare che intanto il futurismo è, o vuol essere, un movimento d'ordine diverso dal fascismo; ma che, anche a volerli per forza mettere sopra uno stesso piano, nello stesso assurdo dei futuristi di voler essere rivoluzionari ad ogni costo, cadrebbero anche i fascisti, se fosse loro intento quello di seguire ad ogni costo le tradizioni.

È giusto riconoscere che nella sfera dell'arte, del pensiero, delle lettere, il tradizionalismo è più legittimamente di casa. Si tratta di attività in cui la creazione è sempre preceduta da un fenomeno di riflessione; e i grandi innovatori sono anzitutto dei profondi conoscitori di tutto quello che è stato fatto prima di loro. E troppo siamo ormai stanchi di queste quotidiane rivoluzioncelle letterarie ed artistiche, da improvvisatori e da romantici decadenti; in fondo alle quali, poi, non c'è mai niente altro che il desiderio di qualcuno di mettersi in mostra. Ma, detto questo, è anche da ricordare come tutto lo spirito italiano abbia attraversato e vada attraversando un profondo processo di trasformazione, da un secolo a questa parte, mentre i nostri maestri e poeti ed artisti hanno continuato a ricuocere le vecchie cucine del Trecento, del Rinascimento, del primo Ottocento, imperterriti, in un paese che letteralmente non li capiva più. E quindi anche il futurismo fu il benvenuto, in quanto ci aiutò a capire questa verità, che la nostra cultura (e quasi direi la nostra lingua) ufficiale, non era più cosa viva nel nostro spirito.