(Pubblicato in « Gerarchia », 1927)
di Fermi
La storia dei rapporti fra Chiesa e Stato in Italia, negli ultimi decenni, ha un'impronta paradossale, incomprensibile per chiunque non si renda conto e della posizione reciproca, delicatissima, dei due poteri e del carattere delle nostre classi dirigenti. Se la destra, coi suoi uomini cresciuti nelle lotte, negli esilii nelle galere, e però moralmente più forti e anche più religiosi, potè, rinnovando la distinzione dantesca, essere severa con le pretese temporali, e rispettosa per le prerogative spirituali, dopo il '76 le cose andarono diversamente. Il principio religioso si considerò come morto, o morituro, e quindi gli uni si prepararono a sotterrarlo, gli altri a raccoglierne la eredità, conforme alle istruzioni emanate dalle logge, nostrane e straniere. Ma intanto le necessità parlamentari esigevano che non si lesinasse in riguardi, anche tangibili, verso coloro che, alla vigilia delle elezioni, nei distretti rurali specialmente del nord, erano in grado di dire una parola, forse discreta, ma certo decisiva, in favore del candidato governativo. La sacristia, la canonica, il campanile abbisognavano di urgenti restauri; si desiderava un aumento di congrua, si voleva rimovere certi sconci anticlericali e via dicendo. Su questa piattaforma si svolgevano opportunissime contrattazioni dove i gabbati non si trovavano fra i contraenti.
Il guaio (morale!) crebbe con l'abolizione del non expedit e col suffragio universale. Chi, se non il parroco, menava all'assalto delle urne le turbe, almeno campagnole, non conquistate dai rossi? Il malcostume salì fatalmente con la fortuna del P. P., che metteva la nazione nelle mani del clero politicante, ciò che era un danno gravissimo, e per la nazione e per il clero stesso, che si sviava dal suo alto ministero. Ma il P. P. si disfece rapidamente, pur con tutto il valore e i meriti di alcuni valentuomini, sopraffatti dalla massa di mediocri e di opportunisti. Finì per mancanza d'ideali sentiti, di capitani eccelsi, di una linea severa, di una volontà superiore. Così, mentre le rovine si accumulavano a destra e a sinistra, il fascismo entrò a Roma. Senonchè, « a Roma non si va, o non si resta, senza una grande idea ». Così Mazzini.
Ma il fascismo, a detta degli ideologi, non aveva al suo attivo « nè un'idea, né un libro ». Che non avesse un libro è vero, e fu grande fortuna. La sapienza libresca degli ultimi quarantanni aveva fatto il vuoto nei cuori e nei cervelli. La ridda dei sistemi finiva con lo stordire e stancare le menti giovanili, ove lasciava un sentimento amaro di desolante scetticismo. Così il fascismo sopraggiunse agile e sciolto, senza zavorra di libri, di sistemi, di idee astratte. Aveva, in cambio, qualche idea concreta. Le alimentava e sostanziava una grande e dolorosa e fremente passione: per l'Italia, per la giustizia, per il popolo ingannato. Quella passione dovevasi, oprando e soffrendo, tradurre in idea. Si doveva, non solo ricuperare l'idea che gli apostoli e i martiri del Risorgimento avevano attestato col dolore e col sangue: era necessario promuoverla a maggiori altezze; pena la decadenza e la rovina d'Italia.
Già nel 1875 l'intuito profetico di Dostojewski aveva afferrato questa necessità: « Il Conte di Cavour è stato, senza dubbio, un diplomatico di prim'ordine. Ha raggiunto il suo scopo, ha effettuato l'unità d'Italia. Ora, che cosa accade? Per duemil'anni l'Italia ha coltivato nel suo grembo un'idea universale, capace di unire l'universo, non in modo astratto, arbitrario, ma reale, organico, frutto della vita nazionale e insieme della vita universale. Era l'unificazione del mondo intero, prima sotto l'antica Roma, quindi sotto il Papato. Le genti che l'Italia ha visto nascere e morire nel corso di tanti secoli hanno compreso che avevano in deposito un'idea universale, o, per lo meno, ne hanno avuto il presentimento. Arte, scienza, tutto si è rivestito, si è penetrato di quell'idea... Ma ora che cosa vediamo al suo posto? Di che cosa possiamo felicitarci con l'Italia? A che cosa è giunta, grazie alla diplomazia di Cavour? Si è costituita una piccola monarchia unita di second'ordine, che ha perduto ogni tendenza all'universalità, e l'ha sostituita con le massime borghesi le più dozzinali, risalenti in parte alla rivoluzione francese; un regno pago di una unità che non significa nulla, unità meccanica e non spirituale, pieno di debiti, soprattutto pago della parte secondaria che appunto rappresenta, ecc. » (Journal d'un écrivain; ed. Bossard, Paris, tomo III).
D. è molto severo con Cavour, per gli stessi motivi, in fondo, che ispirarono l'opposizione di Mazzini. E il grande realista poteva replicare che l'Italia prima di riprendere la sua missione doveva risuscitare come unità nazionale. Sta bene. Ma i suoi continuatori, una volta l'unità raggiunta, che cosa han fatto, in fondo, se non vivere alla giornata? E più d'uno, fra loro, avrebbe riso in faccia a Dostojewski. La scienza della loro università, la schermaglia parlamentare, la prassi burocratica avevano ucciso in loro, con la fede nelle realtà ideali, la facoltà di vedere alto e lontano. Ci voleva un homo novus balzato su dal popolo che lavora — e perciò vive — a romperla col pigro bizantinismo dei vari mandarini vegetanti nei dicasteri. Egli, non appena afferrate le redini del potere, guardò in faccia il cosiddetto problema ecclesiastico. Forse passò in rassegna le soluzioni classiche adottate nel corso di due millenni, ispirate generalmente all'astuzia che inganna e alla violenza che inchioda la vittima, trovandole, come sono, moralmente basse, politicamente fragili e pericolose. Avrà sentito che i forti e liberi possono impunemente mostrarsi schietti, equi e fin generosi. Certo egli adottò la risoluzione che Dante aveva additata, sebbene indarno per 600 anni. E fu, rispetto per la suprema autorità spirituale, senza nessuna (sostanzialmente) di quelle debolezze che risusciterebbero appetiti, e quindi conflitti, che dobbiamo augurare eliminati per sempre. Ho nominato Dante. Ma anche dei pontefici, e tra i più illustri, come ad es. Gregorio X e Leone XIII, di contro alle teorie di sopraffazione reciproca, sì care ai curialisti e ai regalisti, avevano proclamato la dottrina superiore e vera, della necessaria e cordiale e sincera collaborazione delle due potestà, rimanendo ciascuna dentro i confini segnati alla sua missione speciale. La chiesa moralmente più alta, lo stato materialmente più forte, ma anche ricco di una eticità civile e di una cultura propria, affiancano e sostengono, da destra e da sinistra, la porzione di umanità loro affidata, perchè vada, sicura e tranquilla, alla ricerca del suo destino.
In questa convinzione, su questo solidissimo terreno, lo statista autentico dà lealmente la mano al teologo e al mistico superiori alle ambizioni mondane. Questi uomini di buona volontà operano la pace che l'evangelo annuncia. Di conseguenza fu rimesso in onore l'articolo primo dello statuto, che la malizia demomassonica aveva, piano piano, messo in soffitta, unitamente al quinto e a diversi altri. Fu circondato di rispetto l'esercizio della religione che la propaganda, subdola delle sètte, sfacciata dei sovversivi, aveva screditato e manomesso, continuando a sbandierare la libertà di coscienza. Ma quello che doveva più scandolezzare i bigotti del laicismo, fu la riammissione, e in forma solenne, del principio religioso nella scuola primaria. Il quale principio, secondo la lettera e Io spirilo della riforma Gentile, diventa il fulcro e l'anima di tutto l'insegnamento. Così lo stato cancellava la tradizione umanistica degli ultimi secoli, di un ateismo, prima larvato e poi scoperto, e si rituffava nelle schiette correnti religiose non solo del più vigoroso medio evo, ma della primitiva antichità classica, onde Fustel de Coulanges aveva, per il primo, rivelato il segreto.
L'applicazione delle nuove direttive non poteva non dar luogo a inconvenienti, per la impreparazione del clero e del laicato, per il contrasto fra le tendenze, per inframmettenze subdole, per la gara indecorosa degl'interessi editoriali. Chi regge le sorti della scuola dovrà spiegare una grande circospezione e una fermezza più grande a tutelare le coscienze di quelli che domani eiranno il popolo italiano.
Che accoglienza ha fatto il clero alla politica religiosa del fascismo? Affrettiamoci a distinguere. L'autorità suprema ha più volte espresso il suo consenso, pur con alcune riserve che, a suo tempo, verranno qui esaminate serenamente. I prelati più fervidi hanno dato, in generale, una adesione persino entusiastica. Altri, piuttosto frigidi nei riguardi dell'Italia e ostili a qualunque rivoluzione, hanno creduto vedere nel fascismo il baluardo delle loro dottrine assolutiste, il succedaneo della defunta e rimpianta Casa d'Austria, il braccio secolare che sterminerà gli Amaleciti della esecrata modernità. Il resto del clero è diviso. Mi sarebbe caro di poter dire che la grande mafr gioranza ha compreso questo magnifico movimento di giovinezza ; che lo asseconda nel bene e per il bene, pur mantenendosi estraneo alle competizioni di parte: a quel modo che i migliori dei sacerdoti appoggiarono i moti per la Indipendenza, dal '21 al '66. Non è così. Ci sono dei vecchi, i quali in gioventù, piuttosto che alla Bibbia, ai Padri e alla liturgia, si abbeverarono alle torbide fonti di una stampa, che ogni giorno malediceva alla nuova Italia. Ci sono dei maturi per cui è saggezza superiore sorridere delle vicende umane con uno scetticismo olimpico, il quale, per altro, non vieta che ci si occupi sul serio dei proprii interessi. Ci sono dei giovani, suddivisi in idealisti e politicanti. I primi pigliano sul serio le bubbole umanitarie di certi maestri e non arrivano a sospettare la mostruosa verità: che dietro a veli rosati la demagogia e la plutocrazia, sataniche tutt'e due, menano danze oscene. Si aggiungono a questi i troppi evangelici che, avendo imprestato al fascismo una brutale filosofia della violenza, fremono di orrore. Ma la filosofia non c'è, e il Vangelo narra che Gesù, un giorno, sfogò la sua santissima collera a suon di funate. Oli altri non perdoneranno mai al fascismo di avere spezzato il loro sogno di un regno di Dio in terra (molto in terra) dove ogni cappellano d'Italia avrebbe rappresentato il Samuele e il Gregorio VII di fronte al sindaco del villaggio... Sorridiamo mestamente.
Ma io non ho parlato che di un 'ala, per quanto numerosa. Vi è un centro, di buoni preti, che non fanno della politica, o perchè non ci si raccapezzano o perchè sono assorbiti nel disimpegno del ministero. Nessuno ha il diritto di biasimarli. Efficacemente, sebbene indirettamente, servono la patria, alla quale educano e mantengono figli onesti e cittadini devoti. Ci sono da ultimo, e più che non si creda, sacerdoti secolari e regolari che, o per temperamento fervido o per intelligenza più agile o per puro patriottismo, aderiscono con calore, a volte con passione, alla rivoluzione fascista, senza chiuder gli occhi sulle deficienze umanamente inevitabili. La loro posizione è delicata. Invisi ai confratelli dell'altra sponda, lusingati forse da quelli che possono in provincia; se si mischiano alle lotte di fazioni e d'interessi, i poveretti sono perduti. Ma se, restando a quell'altezza in cui li ha collocati il carisma sacerdotale, sono solleciti non d'altro che di serbare o di restituire all'attività civile, quella purezza e nobiltà che son proprie di una visione religiosa della vita, allora sono da considerare come benemeriti e della patria e della religione; possono sfidare i giudizii dei colleghi, poco illuminati o poco caritatevoli.
Quasi tutto il clero approva la guerra franca del governo contro le società segrete, come un servizio immenso reso alla Chiesa. Ma il servigio reso alla pubblica moralità è forse più grande. Che dei cittadini complottassero nelle tenebre, con lo scopo preciso di esercitare un'influenza non sindacabile né coercibile sugli interessi più gelosi della vita pubblica, in pace e in guerra; e anche col risultato di spartire tra i cosiddetti fratelli le cariche più importanti e delicate dello stato — e questo in un paese dove di libertà ce n'era fin troppa — tutto ciò era semplicemente immorale. E altrettanto immorale era il giuramento che assicurava la latitanza e autorizzava la menzogna. Poiché la schiettezza e la sincerità sono il fondamento primo e inviolabile della vita civile. Il governo fascista ha fatto suo il monito di Ugo Foscolo: « Per rifare l'Italia bisogna disfare le sètte ». L'Italia rifatta politicamente ora potrà farsi, o rifarsi, moralmente, poiché fu tolta di mezzo la triste menzogna: almeno a tenore di legge. Poiché molti fratelli hanno sollecitato l'ospitalità del nemico e l'hanno ottenuta. Anche i peggiori.
Altri e segnalati servigi alla causa della moralità ha reso il fascismo col tutelare la integrità della famiglia, combattere il malcostume, difendere i diritti del lavoro: col proclamare quest'ultimo un dovere sociale.
I partiti sovversivi, nell'interesse di una rivoluzione che mai non hanno avuto il coraggio di scatenare, avevano paralizzato la attività più necessaria del popolo credulo, quella che è il fondamento, direi fisico, della civiltà e della moralità. Il triste adesso non contano più nulla. Quel fondamento, inoltre, è stato dichiarato necessario e praticamente ineluttabile. Nell'Italia di domani, se Dio ci aiuti, gli sfruttatori e i parassiti non saranno tollerati né dalla coscienza pubblica né dalla legge. Dovrà inverarsi, certo in senso lato, il sogno e il voto del Poeta: l'opra ognun ciberà delle sue mani. (G. Pascoli, La piada).
Nell'Italia di domani. Le massime riforme non si compiono in un giorno. Specie quando vi si oppongono abitudini inveterate e interessi tenaci. Ma guai a non mettervi le mani subito. Intanto si è dato il crollo a quanto alimentava e quasi giustificava una lotta di classe, incivile per se stessa e perniciosa di fronte alla ricchezza coalizzata.
Sicchè la sconfitta dell'ideologia sovversiva, oltre a risanare l'economia della nazione, si risolveva in una vittoria dell'umanità, cessando la più sterile e insana delle guerre civili. E un'altra volta partivano da Roma eterna esempli e mòniti a tutto il mondo civile.
Su questo fondamento etico e religioso, fatto di sincerità e di passione, fiorito di idee concrete e di opere, Benito Mussolini ha cominciato a edificare la nuova Italia. Onta e maledizione a quegli italiani, segnatamente se fascisti, che, per puntiglio, per ambizione, per basse cupidigie, mettessero ostacolo alla gloriosa edificazione.