Wednesday, 7 March 2012

Italia, Serbia e Dalmazia

(Pubblicato in « Il Popolo d'Italia », 6 aprile 1915)

di Benito Mussolini

Nella prima adunata Nazionale dei Fasci d'Azione Rivoluzionaria, venne votato, sulla questione dell'irredentismo, il seguente ordine del giorno:
« Il Congresso nazionale degli interventisti rivoluzionari, discutendo in merito all'irredentismo, ritiene che i problemi di nazionalità debbano essere radicalmente risolti oltre che per ragioni ideali di giustizia e di libertà per le quali i popoli soggetti devono acquistare il diritto di appartenere a quelle collettività nazionali da cui son rampollati, anche perché la risoluzione di tali problemi è nell'interesse della rivoluzione sociale in quanto essa risoluzione libera la via da ogni elemento di confusione tra i vari ceti sociali ».
Quest'ordine del giorno è una dichiarazione di principio che rientra perfettamene nell'orbita delle idealità socialiste, ma — in esso — si astrae da ogni delimitazione pratica o territoriale dell'irredentismo italiano. L'irredentismo italiano non viene specificato e determinato. Ricorda che nell'adunata si delinearono due correnti: l'una che voleva limitarsi a una affermazione ideale, l'altra che voleva — oltre all'affermazione ideale — precisare il significato e la portata in senso geografico e storico — e quindi politico — dell'irredentismo italiano. Io sostenni quest'ultimo ordine di idee.

« Sta bene — io pensavo e penso — affermare che i problemi di nazionalità debbono essere risolti per ragioni ideali, di giustizia e di libertà », ma non basta. Il problema si presenta in termini concreti. Il nostro « irredentismo » non varca certi confini, che per altri irredentisti — ad esempio — non esistono. L'irredentismo può scivolare nel nazionalismo imperialista. Fin dove arriva il nostro « irredentismo »? Ecco la domanda che io posi ai « Fascisti » convocati a Milano. Domanda che non ebbe risposta, ma che torna oggi — colle polemiche sul possesso della costa dalmata — di grande attualità. Se non vogliamo confonderci coi nazionalisti, se non vogliamo assumerci responsabilità positive o negative, occorre prospettare il nostro punto di vista.

Le polemiche sulla questione della Dalmazia non sono « accademiche » come si va dicendo. Appassionano troppo. Né sono premature. Il regime di neutralità ci serva — almeno — per discutere e valutare i problemi che la guerra dovrà risolvere! Circa il possesso della Dalmazia, due tesi sono in aperto contrasto: la tesi russa o, meglio, panslavista, che vorrebbe assegnare tutta la costa dalmata alla grande Serbia di domani e la tesi dei nazionalisti italiani che reclamano per l'Italia il dominio di tutta la costa dalmata. Noi non siamo né cogli uni, né cogli altri. Che la Serbia abbia diritto di accesso al mare, nessuno vorrà contestare. La Serbia anela al mare. Non per nulla i cavalieri serbi spinsero al galoppo i cavalli nell'Adria quando vi giunsero, dopo una settimana di marcie forzate.

Negare il mare alla Serbia, sarebbe un atto di prepotenza, un atto assolutamente impolitico che avrebbe conseguenze dannosissime per l'Italia. Liquidato un nemico, l'Austria-Ungheria, ce ne creeremmo immediatamente un altro. Quando si afferma che la Serbia ha diritto al mare, s'intende dire che la Serbia deve avere una porzione di litorale marittimo sufficiente ai bisogni della sua economia presente e futura.

Le ragioni che i nazionalisti italiani adducono per bandire la Serbia dall'Adriatico dalmata, non ci convincono. Le ragioni d'indole militare sono fantastiche. Passerà molto tempo prima che la Serbia — stremata da tre guerre — possa permettersi il lusso di una marina militare di qualche efficienza.

D'altra parte, in un eventuale trattato di intesa italo-serbo, potrebbe essere sancito l'obbligo per la Serbia di non crearsi una marina militare. Naturalmente, una imposizione del genere che convertirebbe l'Adriatico in un « lago militare » esclusivamente italiano, dovrebbe venir compensata in modo adeguato. Comunque, l'affacciarsi — più o meno largamente — della Serbia sull'Adriatico, non può suscitare preoccupazioni di indole militare. Resta allora la questione dell'italianità. Ecco un tasto delicato e... controverso. Si citano autori, si consultano le storie di Roma e di Venezia, si citano anche i geologi, per attestare o meno l'italianità della Dalmazia. Qui bisogna procedere con discrezione e misura, tenendoci lontano dalle pericolose infatuazioni imperialiste. La « fame di chilometri quadrati » ci ha già dato delle ingrate sorprese. Approfittiamo della dura esperienza del passato, per non ricadere in tentazione e in errore.

Che gli italiani in Dalmazia rappresentino qualche cosa di più del 3 per cento delle adulteratissime statistiche austriache è positivo, ma la maggiore percentuale d'italiani, non è, per se stessa, titolo sufficiente onde rivendicare il possesso esclusivo di tutta la Dalmazia.

Che cosa diremmo, se i tedeschi rivendicassero il dominio di tutto il Veneto, solo perché nell'altipiano dei sette comuni esistono secolari oasi di popolazioni che parlano tedesco? E perché — se vale il principio che deve essere « politicamente » italiano tutto ciò che appartiene « geograficamente » all'Italia — non scendiamo in lotta anche contro l'Inghilterra e la Francia per Malta e la Corsica?

Come tutti i principii, anche quello di nazionalità non deve essere inteso e praticato in senso « assoluto », ma in senso relativo. Gli è per ciò che noi non possiamo pretendere di annetterci « tutta » la Dalmazia, solo perché le popolazioni del litorale parlano italiano, specie se quest'annessione dovesse creare uno stato d'inimicizia fra l'Italia e la Serbia e quindi col mondo slavo.

Dovremmo allora sacrificare l'italianità superstite della Dalmazia e abbandonare per sempre all'irrompente slavizzazione città care al cuore di ogni italiano come Zara, Sebenico, Spalato, Ragusa?

No! Anzi! Noi crediamo che bisogna salvare e salvaguardare tale italianità. Ma è necessario per questo, di « conquistare » militarmente e politicamente la Dalmazia? Lo escludiamo, sino a prova contraria.

Noi pensiamo che l'italianità linguistica e culturale della Dalmazia possa e debba essere garantita e tutelata da una pacifica e leale intesa fra l'Italia e la Serbia. Se questa intesa condurrà anche per esigenze d'ordine strategico a un possesso più o meno vasto del litorale e dell'arcipelago dalmata da parte dell'Italia, nulla da obiettare, specie per l'arcipelago; ma se, per questo possesso, dovessimo creare un irredentismo croato-serbo e suscitarci contro l'ostilità degli slavi, del retroterra dalmata e — da notare! — del retroterra istriano, vale la pena di rinunciarvi e di limitarci a esigere dalla Serbia la tutela dell'italianità dalmata dagli assalti di una slavizzazione governativa e coatta.

Il nostro punto di vista è questo: il possesso della Dalmazia (arcipelago e litorale) deve essere oggetto di trattative e di una intesa italo-serba. Intesa possibilissima, se si eviteranno le tesi estreme: la panslavista e la nazionalista. Le città italiane del litorale dalmata devono costituire i punti d'appoggio per la nostra futura penetrazione ed espansione economica e culturale nella grande Serbia e nella Balcania. Ma per raggiungere questi obiettivi, per fare della Balcania uno sbocco e un mercato dell'Italia industriale, è necessario seguire una politica ferma e leale; lontana dalle debolezze e lontana anche dalle sopraffazioni.