di Francesco Coppola
I.
La firma del Trattato del Laterano, con cui, dopo più che ottanta anni, veniva risolta ed eliminata la così detta « Questione romana » e solennemente proclamata la pace — anzi la concordia — politica e spirituale tra la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano, è stata immediatamente e unanimemente definita, in Italia e fuori d'Italia, anche da chi ne ha tratto — e l'ha mal dissimulato — motivo di avversione o di preoccupazione, uno de più grandi avvenimenti della storia contemporanea. Grandissimo, infatti; e tale che, certo, più crescerà la distanza del tempo e meglio ne apparirà la decisiva grandezza. Non meno unanimemente, e non meno giustamente, il merito di questo grande fatto è stato attribuito alla ispirata sapienza del Papa, alla alta saggezza del Re, e al genio politico — che tale veramente si va di giorno in giorno palesemente affermando — di Benito Mussolini; e anche, sia pure in secondo piano, alla intelligenza, alla finezza e al prudente senso di opportunità e di equilibrio — intimamente italiani e dall'una parte e dall'altra — dei loro collaboratori.
E in verità Pio XI, nell'ora medesima in cui nel Palazzo del Laterano si firmava il Trattato della Conciliazione, ha dato Egli stesso, nel suo discorso ai parroci di Roma e ai predicatori della Quaresima, la misura della mente e dell'animo con cui l'ha voluto, deciso e accolto. Il Papa che, mentre le maggiori Potenze terrene, e proprio le Potenze vittoriose e le più armate, dietro il mito grossolano di un pacifismo doppiamente materialista e nello spirito e nei mezzi, vanno affannosamente inseguendo nei patti, negli statuti e negli istituti internazionali le inafferrabili « garanzie » di una loro antistorica « sécurité », conscio Egli invece della provata vanità delle « garanzie » internazionali, deliberamente e dichiaratamente non cerca garanzia « se non nella coscienza delle giuste sue ragioni, se non nella coscienza e nel senso di giustizia del popolo italiano, se non più ancora nella divina Provvidenza e nella indefettibile assistenza divina promessa alla Chiesa », dimostra a quale chiara e sicura e insieme religiosa intelligenza della storia confluisca in Lui la duplice millenaria esperienza e della grande stirpe italiana a cui Egli appartiene e del divino Istituto che Egli rappresenta. Il Papa che, superato l'antico costume e perfino il ricordo delle servili lusinghe e delle efimere abilità, dell'intrigo politico e del complicato e vano gioco di equilibrio, nettamente e serenamente afferma che con l'annuncio della imminente Conciliazione, dato per dovere di cortesia ai rappresentanti delle Potenze straniere, Egli non aveva in alcun modo inteso « di domandare un permesso, un assenso o una garanzia », dei quali « non poteva essere questione », dimostra quale fiero sentimento Egli abbia della mistica dignità e grandezza del suo Ministerio e insieme quale giusto sentimento della dignità e della grandezza dell'Italia. Il Papa che, per concretare la sua sovranità, superando non solo l'antico concetto medioevale del dominio teocratico ma anche quello più moderno del dominio materialmente territoriale, deliberatamente non esige « se non quel tanto di territorio che è indispensabile per l'esercizio di un potere spirituale affidato ad uomini in beneficio di uomini », e si compiace « di vedere il materiale terreno ridotto a così minimi termini da potersi e doversi anche esso considerare spiritualizzato dalla immensa, sublime e veramente divina spiritualità che esso è destinato a sorreggere e a servire », dimostra quale pura e alta e veramente essenziale coscienza Egli abbia della incomparabile regalità spirituale che gli è affidata sulla terra. Mentre la sua più intima e nobile italianità — quella che non consiste nella sudditanza né nella parzialità politica ma nella struttura stessa dell'anima classicamente e umanisticamente rivolta ed aperta alla limpida luce della bellezza e dell'intelligenza — affiora nelle parole che seguono; là dove Egli aggiunge che « quando un territorio può vantare il colonnato del Bernini; la cupola di Michelangelo, i tesori di scienza e di arte contenuti negli archivi e nelle biblioteche, nei musei e nelle gallerie del Vaticano; quando un territorio copre e custodisce la tomba del Principe degli Apostoli, si ha pure il diritto di affermare che non v'e al mondo territorio più grande e prezioso ». Del resto, Egli stesso ancora, due giorni dopo, nell'altro discorso ai professori e agli studenti della Università cattolica di Milano, ha voluto spiegare quale sia nel suo pensiero, oltre quella perfetta sovranità indispensabile alla perfetta indipendenza, il maggior valore della Conciliazione: il Concordato contemporaneamente concluso e armato, e che « se non è proprio il migliore, è certamente tra i migliori » che abbia fatti la Chiesa; il Concordato che così nelle leggi che reggono l'istituto familiare come in quelle che regolano l'educazione dei giovani, e anche, d'altra parte, nelle garanzie e nel rispetto assicurati tanto al mi ni steri o religioso quanto alle gerarchie stesse della Chiesa, restituisce in pieno alla religione cattolica il suo posto storicamente legittimo di religione dello Stato italiano, restituisce — come Egli stesso, non senza forse una commossa iperbole, ha voluto dire — « Dio all'Italia e l'Italia a Dio ».
Di fronte al Papa sta il Re, erede a sua volta di una Dinastia, millenaria anche essa, che per secoli e secoli, pur nella stretta formidabile delle assai più potenti Monarchie straniere, col valore instancabile delle armi, con la tenacia dell'animo, con la coraggiosa sapienza della politica, conservò inviolata in Italia la gloriosa indipendenza del suo piccolo Regno; sinché poi da questo, nell'ora segnata dal destino, mosse, da Novara a Vittorio Veneto, a riscattare e a unificare tutta la nazione italiana nel vittorioso Stato italiano di oggi. Degno dei suoi grandi padri, questo Re taciturno e schivo, ben riconosce a ogni bivio, con sicuro intuito, la via maestra della storia segnata al suo popolo, e con fermissimo animo, pur tra le più varie e talvolta torbide e talvolta drammatiche vicende della politica nazionale e internazionale, la elegge o la segue. È il Re della guerra libica dell'll, il Re della neutralità del '14, il Re dell'intervento del '15, il Re di Peschiera, della resistenza a oltranza del '17, il Re della vittoria del '18, il Re della Rivoluzione fascista del '22, il Re della Conciliazione del '29.
Tra questo Papa e questo Re l'opera politica di Benito Mussolini appare quale fu prevista e da Cavour e da Crispi, quella di un uomo di Stato veramente eccezionale. Intuita e forse già disegnata da più di tette anni, voluta con consapevole chiarezza, misurata con lungo sguardo, condotta con ferma mano, senza debolezze e senza impazienze, sapientemente graduata e preparata di tappa in tappa, e infine nettamente definita nei termini giusti, e nell'ora giusta felicemente compiuta: un capolavoro di intelligenza, di equilibrio, di forza e di precisione. Già prima del suo avvento al potere, Benito Mussolini aveva riconosciuto l'enorme e accresciuto valore storico, oltre che spirituale, del Papato e fortemente affermato la necessità storica, oltre che spirituale, di comporre, così nella vita morale della nazione italiana come nella vita politica mondiale, l'innaturale e ormai anacronistico dissidio tra l'Italia e la Chiesa Cattolica, cioè la Chiesa per origini, per tradizione, per composizione, per compenetrazione, per forma mentis et humanitatis, italiana per eccellenza. Questa storica, oltre che spirituale, necessità era stata anche prima sentita e affermata, come tante altre cose, dal Nazionalismo italiano (Vedi, tra l'altro, il Manifesto con cui nel dicembre 1918 si apriva il primo fascicolo di questa rivista, e che dopo dieci anni, riproduciamo in testa a questo fascicolo. V. specialmente a p. 24.). Ma, come tante altre cose, il Nazionalismo italiano non poteva tradurla in atto; giacche il Nazionalismo italiano ebbe senza dubbio la intelligenza e la volontà della storia e della più grande storia d'Italia, ma per la azione statale gli mancò la decisiva forza politica. Benito Mussolini ebbe, invece, anche la forza politica, e costantemente l'accrebbe in proporzioni tali che al settimo anno essa appare oggi, e realmente è, almeno all'interno, irresistibile. Così egli potette, a grado a grado, eliminare tutti gli ostacoli, ideologici, politici, demagogici, alla Conciliazione.
Eliminò l'agnosticismo liberale, eliminò il laicismo anticlericale, eliminò il parlamentarismo paralizzante, eliminò il gioco settario dei partiti, eliminò il predominio massonico; e concretò a mano a mano nelle istituzioni il nuovo orientamento religioso della vita italiana dopo la Guerra, che doveva naturalmente e necessariamente riportarla verso la millenaria religione endogena e tradizionale, verso la Chiesa cattolica. Così eliminò in pari tempo tanto gli ostacoli che ancora tenevano l'Italia lontana dal Papato quanto quelli che tenevano il Papato lontano dall'Italia. E frattanto, con la compiuta ricostruzione costituzionale e sociale dello Stato e con la propria immensa autorità, dava al Vaticano l'indispensabile convincimento della solidità e stabilità del Regime; solidità e stabilità che il Vaticano ha, a sua volta, con la Conciliazione appunto, affermate e confermate.
II.
Ma se tali e così felicemente singolari appaiono le virtù e l'opera dei protagonisti della nuova pace romana, e accanto a queste l'intelligenza e la sapienza dei collaboratori, e specialmente la pronta e penetrante duttilità politica del Cardinale Gasparri, Segretario di Stato, da un lato, e dall'altro la fervida e profonda ricchezza d'idee di Alfredo Rocco, legislatore del Regime, certo è che anche questa volta — come sempre avviene, e sempre è vichianamente riconoscibile, nei grandi fatti della storia — gli uomini non hanno fatto che interpretare, definire e concludere quel processo di idee, di tendenze e di eventi, o se si vuole, quella determinata fase di un anche più lungo e fatale processo, che le forze e le necessità della storia — precisamente quelle stesse che nell'ora giusta li avevano, proprio essi e non altri, suscitati e portati e mantenuti al potere — avevano già determinato e maturato.
E quando qui si dice forze e necessità della storia, non si intende soltanto — come comunemente si è portati a credere — quella notissima e innegabile ma essenzialmente negativa virtus medicatrix del tempo, quella lenta e sicura ma generica azione del fluire continuo della vita, che chiuso il momento drammatico di un conflitto storico, diradate o esaurite le generazioni che direttamente vi parteciparono, mutate le condizioni di fatto, obliate le antiche e alle nuove a poco a poco adattatisi gli animi, allontanatisi e impiccioliti all'orizzonte quelli che parevano allora i motivi determinanti della storia, e altri e diversi, allora sconosciuti o remoti, progressivamente incombendo» a poco a poco, specialmente nelle generazioni sopravvenute, spegne le vecchie passioni, cancella i vecchi rancori, scolora gli stati d'animo, affievolisce gli argomenti polemici, sinché a un certo momento il dissidio ancora formalmente conservato appare a tutte le coscienze anacronistico e fossile e irrazionale e le sue ragioni troppo piccole e vane di fronte alle ragioni di solidarietà imposte dai nuovi aspetti ideali e politici della eterna competizione mondiale, che con progressiva minaccia grandeggiano e urgono.
Certo anche nei rapporti tra il Papato e la nuova Italia, poi che l'inevitabile fu compiuto, e ben presto apparve anche a tutte le coscienze, quale in realtà era, immutabile, questa spontanea virtù del tempo ha, dalla Breccia di Porta Pia alla Conciliazione Lateranense, insensibilmente ma irresistibilmente e decisivamente operato, e sull'una e sull'altra parte. Certo in Vaticano, cicatrizzata appena la ferita del perduto Potere temporale e sedato il primo bruciore di quella che si voleva per forza considerare una offesa, fu a poco a poco sempre più chiaramente avvertito come, liberata dalle cure e dalle necessità materiali della materiale amministrazione di un materiale dominio terreno, la indipendenza spirituale del Papa si trovasse in realtà, intrinsecamente ed estrinsecamente, purificata e accresciuta; come, liberata all'interno dalle preoccupazioni della lotta sociale — inevitabili per un governo temporale, e sempre più intense e più gravi nell'ultimo cinquantennio per tutti i governi — e liberata all'esterno dalle preoccupazioni della lotta internazionale — inevitabili anche esse per uno Stato temporale fra Stati temporali — la universale paternità spirituale del Papa si trovasse in realtà anche essa purificata e accresciuta sia verso gli uomini sia verso i popoli; come, in una parola, eliminati il peso e i vincoli della potestà terrena, e rimosse le obiezioni che erano da essa inseparabili, quasi mondata e sublimata, la mistica autorità del Papa riprendesse a grandeggiare nel mondo come non mai prima nei tempi moderni. Fu anche a poco a poco avvertito in Vaticano come, ricostituendosi in unità politica e rivendicando Roma capitale, l'Italia non avesse già levato contro il Vicario di Cristo l'empio arbitrio di un ambizioso o cupido capriccio ma obbedito alla irresistibile legge, ancora più che storica, biologica della sua rinascita nazionale; come contro il fatto naturale, necessario e immutabile del nuovo Stato italiano fosse, e apparisse anche universalmente, sempre più vana e ingiusta la condanna inflessibile, sempre più vana e assurda la negazione incondizionata, sempre più pericoloso, infine, e per la Chiesa non meno che per lo Stato, il mantenere indefinitamente nella coscienza di una grande nazione — e proprio della nazione per origini, per sangue, per tradizioni e per cultura, più vicina al Papato — l'ormai artificiale e iniquo dissidio tra il sentimento di patria e il sentimento di religione, e a quaranta milioni di cattolici italiani presentare la Chiesa cattolica come irreconciliabilmente avversa all'Italia.
Alla nazione italiana, d'altra parte, spariti gli uomini più intransingenti e svaniti i più accesi stati d'animo del Risorgimento, sfumati i più aspri rilievi del passato conflitto, e ridotto questo al suo vero posto e alle sue vere proporzioni nella ben più vasta visione della trimillenaria storia d'Italia, appariva sempre più anacronistica ed assurda — anche se progressivamente attenuata, anzi tanto più fortemente quanto più andava attenuandosi — l'antitesi tra l'Italia risorta e il Papato che essa sentiva triplicemente italiano, italiano per la sua storia, italiano per il suo genio umanistico, italiano, anzi romano, per la sua vocazione universale. Appariva spiritualmente sempre più ingiustificata e intollerabile la condanna a portare nella propria coscienza, unica tra tutte le nazioni del mondo, l'innaturale e debilitante tormento di questo dissidio tra le due idee più elementari e profonde, le due idee polari dell'umanità storica, quella di patria e quella di religione. Appariva politicamente sempre più inammissibile e immeritato vedere nella grande competizione internazionale, nella quale essa entrava ogni giorno più a fondo come grande Potenza, il Papato, italiano, alleato a priori, attuale o potenziale, effettivo o presunto, contro l'Italia, con le Potenze concorrenti o nemiche dell'Italia. Per questo, sin dal tempo di Cavour, sin da prima del '70, tentativi più o meno responsabili per la Conciliazione e per una sistemazione consensuale della Questione Romana furono più volte abbozzati.
Ma tutti successivamente erano falliti; perchè e dall'una parte e dall'altra persistevano degli ostacoli che parevano ancora insormontabili. Persisteva da parte vaticana una ostinata e appassionata reluttanza, più sentimentale ancora che intellettuale, a comprendere e ad accettare la storia, reluttanza che si irrigidiva non solamente in pretese, ormai palesemente assurde, di una sia pur ridotta restaurazione temporale nel senso antico, non solamente in una superstite avvversione antitaliana che sarebbe fatuo voler ignorare e vano voler negare oggi a posteriori, ma anche in una tenace diffidenza antitaliana che, se poteva in parte giustificarsi di fronte alle origini rivoluzionarie, alla dottrina liberale e alla pratica demo-massonica della politica del nuovo Regno, e più ancora di fronte a un parlamentarismo intimidito e dominato dalla faziosità ideologica e demagogica dei partiti anticlericali, non poteva invece gustificarsi affatto quando si estendeva alla nobiltà e alla grandezza dell'idea italiana e al valore e al destino, a onta di tutto, manifestamente crescenti, dell'Italia nel mondo. E questa diffidenza, a sua volta, si complicava, come causa insieme ed effetto, con un miope calcolo politico, per cui, sottovalutando l'importanza internazionale dell'Italia e sopravvalutando invece quella di altre Potenze, si credeva necessario di rassicurare le gelosie e le preoccupazioni antitaliane di queste, facendo loro dimenticare, grazie alla antitalianità politica del Papato, la sua innegabile italianità storica; si contava di propiziarsene e di conservarne il favore e l'appoggio negando ostinatamente la Conciliazione all'Italia; si temeva di perdere e l'uno e l'altro, insospettendole, se si fosse accordata all'Italia la Conciliazione.
Anche da parte italiana, d'altro lato, persisteva la diffidenza contro il Papato come sovranità temporale, di cui si ricordava essere stato per secoli uno dei maggiori ostacoli alla unificazone politica della nazione, e aver più volte, a difesa del proprio dominio terreno e dei propri interessi terreni, chiamato lo straniero in Italia e contro l'Italia: e di cui anche ora si temeva una possibile dipendenza politica dallo straniero. E più ancora forse persisteva la diffidenza contro un clericalismo di cui si ricordava più volte la docile e talora servile alleanza con i dominatori stranieri. Persistevano inoltre in Italia, se non proprio gli stati d'animo, le ideologie non irreligiose ma liberali e anche massoniche di una gran parte del Risorgimento rivoluzionario; e nuove ideologie vi erano penetrate e cresciute, queste propriamente irreligiose perchè fondamentalmente materialiste, col socialismo e con la socialdemocrazia. E se le specifiche passioni del Risorgimento erano spente, altre passioni sociali ne avevano preso il posto, sovversive e nemiche della autorità della Chiesa altrettanto che di quella dello Stato. Vi erano così nell'Italia politica una formazione massonica in alto e una demagogia sovversiva in basso, tutte e due diversamente ma faziosamente anticlericali; e tutte e due signoreggiavano il Parlamento; e il Parlamento, a sua volta, irretiva i governi e li paralizzava nei loro saltuari e timidi tentativi di conciliazione. Avveniva in tal modo che dall'una e dall'altra parte le due opposte diffidenze si incontravano e si urtavano, e reciprocamente, per reazione, si confermavano e si alimentavano.
III.
Questi ostacoli, certo, non potevano essere ne insuperabili ne eterni; e certo sarebbero stati anche essi, a poco a poco, eliminati dal tempo. Ma l'opera del tempo rischiava pur sempre di trovarsi un giorno o l'altro arrestata e compromessa da complicazioni sociali o internazionali; e a ogni modo, poteva essere ancora assai lunga, se ad accelerarla e ad accrescerla non fosse intervenuta la forza attiva di un ben più vasto duplice processo storico, mondiale da un lato, specificamente italiano dall'altro, che senza dubbio si era già iniziato prima della Grande Guerra ma che la Grande Guerra, con la 6ua potenza incandescente di distruzione e di creazione, ha irresistibilmente affrettato e maturato. Già prima della Grande Guerra, anzi per tutto il secolo XIX, la triplice progressiva degenerazione, nel campo filosofico, del razionalismo illuministico del Settecento nel positivismo e poi nel materialismo, nel campo politico, del liberalismo nel parlamentarismo democratico e poi socialdemocratico, nel campo sociale, del capitalismo nella lotta di classe e poi nella plutolatria e nel socialismo, aveva messo capo, più o meno presso tutti i popoli di civiltà occidentale e cristiana, a una diffusa forma mentis neo-illuministica, materialistica e sovversiva che, sotto i vari suoi aspetti, socialista, pacifista o anche meramente e grettamente economico, ora violenta nella impaziente avidità delle moltitudini popolari, ora cinica nel freddo e diffidente egoismo degli individui e delle « classi », ma sempre orgogliosa nella fatua certezza del suo semplicismo sommario e sempre sospettosa e insofferente di ogni tradizionale autorità e di ogni tradizionale disciplina non meno spirituale che propriamente sociale e politica, era naturalmente e necessariamente portata a rifiutare a negare e a minare sopratutto il valore e il potere della Chiesa cattolica che, così nel campo religioso come in quello morale, è per eccellenza la Chiesa della verità rivelata e quindi della tradizione e della autorità. È vero — giacché pare che gli uomini non possano collettivamente vivere senza una mistica — che questa progressiva leva mondiale, sovversiva e iconoclasta, di avidità materiali e di passioni rivoluzionarie aveva anche essa, e anche e specialmente là dove ostentava la bandiera dell'ateismo, una sua mistica laica, tronfia di « scienza » elementare e di « ragione » piccolo-borghese, fermentata di lieviti ebraici, umanitaria ed egualitaria, la mistica del dio bifronte Individuo-Umanità: ma questa mistica, appunto per essere essenzialmente razionalista e materialista insieme, era essenzialmente anticattolica. È vero anche che questo moto pandemio degli animi, grossolanamente e lividamente edonistico, suscitava per reazione qua e là, in alcune zone di coscienze, una confusa anche se intensa nostalgia religiosa, una ansiosa ma incerta sete di nuova religiosità, che cercava il suo appagamento ora in vaghi « superamenti » che non riuscivano a definirsi, ora in tentativi neo-protestanti, ora perfino in seno alla Chiesa cattolica nei tentativi modernisti; ma anche queste reazioni religiose, appunto per il loro intimo carattere di ansietà e di incertezza, erano essenzialmente anticattoliche, giacché Cattolicisrao è essenzialmente certezza. Così in un mondo spirituale progressivamente sconvolto da nuove avidità e nuovi rancori di classe, appesantito da una pseudo-scienza materialista, intorbidato da ideologie demagogiche e da sporadici fermenti neo-religiosi, il Cattolicismo perdeva continuamente terreno, giorno per giorno, sino alla Guerra, se non geograficamente in estensione, almeno e certamente in profondità nell'anima dei popoli.
Ora, anche in questo torbido e instabile mondo spirituale la Guerra, nel tremendo ardore del fuoco e del sangue affrettando il processo della storia, portò la sua violenta chiarificazione. La terribile necessità di dare la morte e riceverla, di distruggere senza contare quei beni materiali che parevan sinora il massimo bene, di superare e sacrificare nella carne e negli affetti i bisogni e le repugnanze elementari immediati e concreti dell'individuo per una idea più grande ma non a tutti ben chiara, la potenza del dolore, dell'orrore e della esaltazione eroica, il ritorno improvviso e travolgente di passioni secolari e di motivi ideali che parevano spenti, e il senso apocalittico di un generale sovvertimento in cui tutto pareva poter improvvisamente crollare e tutto improvvisamente sorgere o risorgere, e il senso sacro del mistero innanzi alla tragedia enorme e ineluttabile, tutto ciò pose d'un tratto drammaticamente popoli e uomini faccia a faccia di fronte ai problemi fondamentali del giusto e dell'ingiusto, del fatale e dell'arbitrario, della vita e della morte, del contingente e dell'eterno, che sono i problemi essenziali della umanità e quindi i problemi religiosi per eccellenza. Così, a seconda del diverso temperamento, della diversa formazione morale e del diverso stadio mentale degli uomini e dei popoli, la Guerra provocò reazioni non solo diverse ma opposte. Provocò una reazione, o meglio una esasperazione materialista, cinicamente o fanaticamente rivoluzionaria, là dove prevalevano, sia pure moltiplicate e sommate all'infinito, le immediate ragioni dell'individuo, il dolore e l'orrore della carne ferita e degli animi straziati, la morbosa stanchezza dello sforzo, l'esacerbata sofferenza delle privazioni, e l'acre rancore contro le idee e gli istituti e le leggi tradizionali che il terribile sacrificio avevano comandato ed imposto, e le avidità e gli appetiti che la nuova consuetudine della violenza e dell'avventura aveva risvegliati, la sconsigliata propaganda di guerra accarezzati e adulati, il crollo o la rilassatezza dei freni secolari improvvisamente imbaldanziti. E d'altra parte, là dove, nella esaltazione e nella trasfigurazione eroica del sacrificio, sulle immediate ragioni dell'individuo prevaleva il senso più vasto della vita nazionale, e sul sentimento materialistico il sentimento religioso del mondo e della storia, e sui contingenti appetiti e repugnanze della carne i bisogni capitali ed eterni dell'anima, la Guerra provocò una reazione più profondamente spirituale, anelante alle certezze fondamentali così politiche come religiose. Quella esasperazione sovversiva, naturalmente predestinata a servire tutte le demagogie, le ideologie e le mistiche rivoluzionarie, umanitarie e internazionaliste — tutte strettamente e necessariamente conseguenti tra loro, anche quando parevano e si credevano nemiche: da Wilson a Lenin —, doveva fatalmente sboccare o alla semplicistica e fatua negazione della guerra e quindi della storia e dei suoi valori ideali e della sua superiore giustizia, e cioè al ginevrismo, o addirittura alla negazione astiosa e barbarica di ogni idea elementare e tradizionale della società umana, della patria e di Dio, e cioè al bolscevismo, trionfante in Russia, serpeggiante qua e là, carico di odio e di minaccia, in tutto il resto di Europa. Questa reazione spirituale, invece, nella esaltazione appunto delle idee morali fondamentali ed eterne cercava il valore la legge e la luce del sacrificio compiuto e la più alta forza dell'animo per le nuove prove, e nell'ordine della vita e dello spirito, nell'ordine politico e sociale, nell'ordine morale, intellettuale e religioso, la saldatura profonda e legittima della tradizione con l'avvtdnire. Così, violentemente precipitando il già iniziato tramonto del vecchio liberalismo statale, giuridico, spassionato e agnostico, la Guerra suscitò e mise direttamente di fronte, in tutto il mondo, le forze, l'idea e, se si vuole, la mistica dell'ordine e quella del sovvertiménto, cioè, in fin dei conti, della civiltà e della barbarie.
Dalla parte dell'ordine il Fascismo italiano, cioè la più consapevole, la più organica, la più risoluta forza dell'ordine politico nel mondo contemporaneo, si trovò spontaneamente accanto alla Chiesa Cattolica, la più consapevole, la più organica, la più imperiale forza dell'ordine spirituale nel mondo. L'uno e l'altra di struttura storica e mentale italiana, l'uno e l'altra segnati dal genio universale di Roma, non potevano tardare — superate o scartate le residue obiezioni, i rancori ormai impalliditi, e i preconcetti anacronistici — a riconoscersi necessariamente alleati nella difesa di una civiltà che sotto l'uno e sotto l'altro aspetto, politico e spirituale, è essenzialmente romana.
IV.
D'altra parte e contemporaneamente la Guerra aveva radicalmente mutato la carta e l'equilibrio europeo e mondiale anche nei riguardi della politica religiosa, e quindi della politica del Vaticano. Era crollato l'Impero Austro-Ungarico, a cui, dopo l'eclissi della Spagna e da quando si era diffuso e radicato l'anticlericalismo in Francia, cioè da più che un secolo e mezzo, tranne brevi parentesi, il Papato guardava come alla più grande e sicura tra le Potenze cattoliche. In Francia, dove l'anticlericalismo, razionalistico illuministico e massonico nel Settecento, giacobino e massonico nella grande Rivoluzione, e volta a volta liberale e massonico, socialdemocratico e massonico, socialista e massonico,durante tutto l'Ottocento, successivamente filosofico, politico e sociale, massonico sempre, era già profondamente, costituzionalmente, indelebilmente penetrato e consolidato nello spirito della nazione e nello spirito dello Stato, nel costume e nella legislazione, la Guerra aveva determinato, dopo un breve immediato accenno a un ritorno dei valori religiosi, un nuovo durevole aggravamento delle ideologie e delle passioni anticlericali nella reazione comunista e massonica. E in Vaticano si sapeva benissimo che i rapporti con la Chiesa saltuariamente interrotti e ripresi nel campo della politica estera dai governi repubblicani, ostinatamente e ostentatamente tenaci nella più radicale politica laica all'interno, non erano in realtà che un instrumentum imperii senza il minimo contenuto religioso: si sapeva benissimo che per gli stessi partiti così detti cattolici — del resto, in grande minoranza nel paese e nemici e concorrenti tra loro — dalla Action Francaise al Sillon, la professione religiosa non era che un argomento e un'arma per la lotta politica; si sapeva benissimo, insomma, che sullo spirito cattolico della Francia non si poteva più fare alcun serio affidamento. L'Italia, al contrario, che già eguagliava e superava in popolazione la Francia, e che dalla tremenda vittoria — per quanto delusa e spogliata dagli Alleati nella iniqua pace — era uscita unificata e ingigantita nell'animo e nella coscienza della sua forza e del suo avvenire, l'Italia, con procedimento inverso a quello francese, dopo una breve immediata crisi di reazione sovversiva, era con la Rivoluzione fascista irresistibilmente tornata, e come popolo e come Stato, all'idea e al sentimento profondo della sua romanità e della sua tradizione spirituale, e quindi anche, nella sua vita morale e progressivamente nella sua legislazione, alla tradizione cattolica romana e italiana.
Al tempo stesso la Guerra, mentre — sia pure indirettamente e grazie alle ideologie rivoluzionarie con cui era stata interpretata e bandita — aveva contro l'Occidente imperiale cristiano suscitato il pericolo sovversivo ebraico-asiatico del bolscevismo russo e il pericolo della infatuata e astiosa ribellione musulmana, aveva anche nel seno stesso dell'Occidente cristiano fatto più grave e più palese il pericolo del prepotere dello spirito protestante anglosassone sullo spirito latino cattolico. Nella lotta secolare tra spirito protestante e spirito cattolico, cioè tra spirito germano- anglosassone e spirito latino, quel vantaggio che quello aveva già conquistato su questo, disgregandolo con la Riforma, con l'Illuminismo, con la Rivoluzione dell'89, col Criticismo, col Romanticismo e con tutta la ideologia demo-romantico-massonica del secolo XIX, andava ora bruscamente precipitando verso la supremazia mondiale. Combattuta e vinta sopratutto con sangue latino ma con ideologia protestante, la Grande Guerra aveva dato alle nazioni protestanti anglosassoni — alla già immensa potenza britannica e alla nuova strapotenza americana — non solamente i massimi frutti materiali e politici ma anche quelli spirituali, non solamente egemonia economica, politica, imperiale, ma anche egemonia ideologica e predominio del tipo morale e religioso. Le loro ideologie che avevano dominato la guerra, dominavano ora la pace; e avevano a Ginevra e a Washington le loro chiese — ecumenica e scismatica, ortodossa ed eterodossa, ma entrambe pervase dallo stesso spirito protestante e massonico — di cui tutte le nazioni del mondo erano più o meno costrette ad accettare il culto. Ora, l'Italia sola aveva osato apertamente rigettare da sé i germi e i veleni dello spirito protestante e massonico, e con la sua nuova risoluta giovinezza si era levata a rivendicare e ad asserire, insieme col suo proprio diritto, anche l'idea romana, classica, dell'ordine e della autorità, così politica come religiosa, il valore universale e immortale dello spirito classico latino e cattolico.
Così che, anche agli occhi del Vaticano, sia sotto l'aspetto dell'equilibrio politico sia sotto l'aspetto dell'equilibrio spirituale, la consaguinea Italia usciva dalla Guerra come la maggiore potenza latina e cattolica, per il presente e per l'avvenire. Ed era dunque impossibile che la Chiesa si ostinasse ancora indefinitamente nella vana negazione e nello innaturale dissidio. Appare ora così anche l'altra faccia — quella specificamente italiana — del processo storico che la Guerra ha affrettato: il ritorno, cioè, dell'Italia alla sua classica vocazione universale.
Così nelle sue fasi attive come in quelle passive, così nelle sue fasi imperiali come perfino in quelle di servitù, così nella azione dell'Italia sul mondo come nella reazione del mondo sull'Italia, la storia dell'Italia, politicamente e spiritualmente dominatrice o anche dominata, più che quella di qualsiasi altra nazione al mondo, è sempre storia universale. Nei venticinque o trenta secoli della storia conosciuta d'Italia all'idea nazionale sovrasta sempre un'idea universale, e trasfigurandola l'assorbe. Quando l'idea nazionale, raramente, appare, non appare, come presso gli altri popoli, quale idea-limite, ma quale tappa, passaggio, premessa necessaria per una vocazione e una funzione universali. L'Italia sente, pensa, vuole se stessa non in se stessa ma nel mondo. Il genio italiano, romano, è genio universale per eccellenza. Roma antica è una progressiva conquista universale, un impero universale, una pace universale, una legge, una lingua, una civiltà universali: tutto il mondo occidentale ne porta ancora nell'anima più profonda la forma indelebile. Il Cristianesimo non divenne cattolico, cioè universale, che a Roma, incontrandosi col genio universale di Roma; e se i Papi furono quasi sempre — e poi sempre da quattro secoli in qua — italiani, questo non avvenne, come si è detto in questi giorni da alcuni stranieri preoccupati, per mera consuetudine o per piccole calcolo di opportunità politica, ma perchè nessuna altra nazione aveva come l'italiana il temperamento e la forma mentis universali necessari al Papato. L'idea della Monarchia universale di fronte alla Chiesa universale, entrambe destinate da Dio al reggimento del mondo, l'Aquila e la Croce, trovano la loro più alta espressione filosofica e poetica nel genio italiano di Dante, che, del resto, guardava a Cesare, italiano, da un lato, a San Tommaso, italiano, dall'altro. Nel primo Medio Evo tutte le orde barbariche che si riversarono sull'Occidente ebbero una unica mèta, ancora raggiante dalle rovine: Roma; e poi da Roma segnate e riplasmate, tornarono indietro alla conquista delle sedi europee. Più tardi le nostre repubbliche e poi le nostre signorie fecero politica imperiale assai prima e assai più che politica nazionale. Lo spirito del Rinascimento fu spirito universale e dall'Italia si irraggiò sul resto di Europa. Perfino nei secoli del servaggio — oscura pausa predestinata al riposo e al lento rigerminare delle forze esauste della nazione unica — l'Italia resta, materialmente, politicamente, spiritualmente, il campo per eccellenza della lotta dei popoli, la suprema mèta di ogni conquista; e qui i più grandi e potenti dominatori di Europa, da Carlo Magno a Carlo Quinto e da Carlo Quinto a Napoleone, chiedono il crisma e la corona della loro regalità che non si gente perfetta se non è consacrata romana.
Solo nell'Ottocento la storia d'Italia diventa storia propriamente nazionale; l'idea nazionale domina l'Italia: è il Risorgimento. Ma è una tappa, anche se tale non appare ai contemporanei. Rinnovata ancora una volta, l'Italia risorge alla grande storia: spezzare le catene del dominio straniero, ricostituire la unità politica e spirituale della nazione, creare lo Stato italiano, è la indispensabile premessa per la ripresa della carriera universale. Così, del resto, la sentì Gioberti, e così la sentì, a suo modo, anche Mazzini. Se non che, la fase propriamente nazionale italiana doveva necessariamente portare l'Italia e il Papato a divergere. E non solamente perchè la unità politica della Nazione non poteva compiersi senza l'abolizione del Potere temporale, nè perfezionarsi senza Roma capitale. E non solamente perchè il processo del Risorgimento non poteva non compiersi con spirito romantico e in nome della dottrina liberale, quello intrinsecamente incompatibile col genio romano della Chiesa cattolica, questa intrinsecamente inammissibile dalla dottrina della Chiesa cattolica. Ma anche, o forse più profondamente, perchè la Chiesa cattolica, se presso gli altri popoli è soltanto religione, cioè soltanto verità e legge metafisica e morale, e come tale può benissimo coesistere, in una sfera diversa e più alta, con l'idea nazionale, e quasi dall'esterno sovrapporsi senza alcuna incompatibilità alla idea nazionale, qui, in Italia, invece, era anche materia storica, territoriale, culturale, umana, troppo intrinseca e congeniale perchè la vocazione universale della Chiesa cattolica, italiana, e la passione nazionale del Risorgimento italiano potessero coesistere nello stesso soggetto italiano senza reciproca incomprensione e diffidenza, questa vedendo in quella un pericolo di dissolvi mento e di dispersione, quella vedendo in questa una limitazione dottrinalmente e storicamente inaccettabile.
Incomprensione e diffidenza che non potevano svanire e sparire sin che da una parte la Chiesa cattolica perseverava nella vecchia concezione del Potere temporale come base e premessa indispensabile della sua missione mondiale, e sin che dall'altra parte lo Stato italiano, tuttavia occupato nel necessario travaglio del consolidamento interno, sentiva e concepiva se stesso strettamente legato e limitato all'orizzonte nazionale e all'immobile culto del decalogo liberale. Che cosa è avvenuto poi? È avvenuto che da una parte la Chiesa, privata del Potere temporale, ha a poco a poco sentito la nuova forza e la nuova libertà della sua spirituale supernazionalità, e d'altra parte l'Italia ha cominciato a prender coscienza sempre più larga della propria partecipazione e della propria funzione nella vita mondiale, a sentire la vita mondiale in se stessa e se stessa nella vita mondiale. Ora, questa coscienza, già progressivamente crescente, già chiaramente affermatasi passivamente nel socialismo italiano, attivamente nel nazionalismo italiano, agì, accanto alla passione ancora insodisfatta del Risorgimento, per determinare il volontario intervento dell'Italia nella Guerra mondiale; e, reciprocamente, nella Grande Guerra appunto trovò per tutta la nazione la sua maturità e la sua pienezza dinamica. Con la Guerra e con la Vittoria si concludeva nello spirito degli Italiani — se pur non ancora territorialmente perfetta — la fase nazionale e romantica del Risorgimento, e si apriva quella più grande per cui l'Italia risorta ritorna ancora una volta, secondo il suo classico genio e il suo destino romano, alla sua vocazione universale. Questo avevamo noi ben previsto, quando, pochi, e contro tutto e tutti, venti anni fa, annunciavamo all'Italia, perla sua più grande rinascita, il mito della Guerra Vittoriosa. Con la Rivoluzione fascista, nata appunto dalla passione e dal clima eroico della Guerra e dalla reazione della Vittoria italiana, umiliata e mutilata all'esterno, rinnegata e dilap'data all'interno, questa vocazione universale, per cui l'Italia ritrovava la via maestra della sua storia tre volte millenaria, prendeva il suo volto concreto e il suo spirito ben definito nella crisi mondiale contemporanea. Di fronte alla nuova barbarie materialista e sovversiva che dilagava sul mondo e come reazione alla Guerra fermentava, tra l'arse rovine, dal sangue sparso dei popoli, di fronte al nuovo Medio Evo in cui la corruzione socialdemocratica e l'avido rancore comunista e l'adorazione plutocratica e socialista del feticcio economico andavano sommergendo e spegnendo la luce della civiltà occidentale ancora, una volta come già di fronte alla antica barbarie e all'antico Medio Evo, l'Italia, nel nome e nello spirito di Roma, difendendo e salvando se stessa, difende e salva la civiltà del mondo. Qui il nazionale, secondo il classico genio italiano, torna a coincidere con l'universale; e qui, per questo appunto, ordine cattolico e ordine fascista, appaiono e si riconoscono come il duplice aspetto dell'ordine romano nel mondo. Con la Conciliazione del Laterano il processo di unificazione del Risorgimento si perfeziona e si chiude. L'Italia si libera dal Risorgimento. E con la Croce e con l'Aquila riprende la carriera universale, romana, che le fu segnata da Dio.