(Pubblicato in « Gerarchia », 1929)
di Nicola Pende
Il problema della diminuzione delle nascite od iponatalità, problema che il Capo del governo, col suo occhio di aquila, ha presto segnalato come il problema più vitale per l'avvenire della nazione, non è di quelli che possono a cuor leggero essere affrontati e discussi da chiunque s'interessi, da competente o da dilettante, di fenomeni sociologici, e ciò perchè si tratta di un problema innanzi tutto biologico e medico.
Soltanto qua e là è sorta qualche voce (Gini) ad indicare che i fattori più veri e più potenti di questa grande malattia sociale dell'ultimo cinquantennio, malattia progressiva ma acutizzatasi nel periodo post-bellico, sono fattori d'ordine essenzialmente biologico: e tuttavia io sono fermamente convinto che è soprattutto al biologo, studioso dei fenomeni di biologia del sesso e delle razze, ed al medico studioso dei fenomeni di degenerazione o di decadenza della costituzione individuale, che spetterà la parola decisiva nell'areopago di uomini politici, di sociologi, di cultori di statistica, di giornalisti, propagandisti e moralisti, che, ognuno secondo la propria preparazione culturale, ed il proprio campo visivo, prendono la parola, in Italia e fuori, sull'argomento dell'iponatalità, specialmente dopo il grido benefico di allarme lanciato da Benito Mussolini agli italiani, i quali sembravano addormentati sull'assioma dell'ultrafecondità e dell'esuberante aumento del nostro popolo, in confronto di altri popoli dell'occidente.
Io non spenderò molte parole sul quesito pregiudiziale, se nei paesi in cui, come in Italia, si verifica ancora un discreto aumento annuo della popolazione, in cifra tonda circa 270.000 (per la progressiva diminuzione della mortalità, e non ostante la diminuzione progressiva delle nascite) sia utile o non favorire l'incremento di esse.
Due categorie di oppositori sono insorte contro questa santa campagna per l'incremento delle nascite, anche nei paesi a popolazione crescente.
Gli uni portano ragioni economiche, cioè il pericolo che, se si abbassasse ancora più la mortalità (in Italia, questa è del 16,5%, mentre in Norvegia è arrivata a meno del 5%) ed aumentasse, dall'altro lato, la natalità, la popolazione italiana potrebbe un giorno non trovare più sufficienti mezzi di sostentamento. A questa obiezione ha risposto già con argomenti irrefutabili il Capo del governo, dicendo che, in una Italia bene organizzata e guidata, interamente coltivata e valorizzata nelle sue risorse naturali, c'e posto ancora per altri dieci milioni di cittadini, il che vuol dire che, se pure la nostra popolazione crescesse d'ora innanzi di mezzo milione all'anno, cioè il doppio dell'aumento attuale, occorrerebbero altri venti anni prima che la terra della patria divenisse insufficiente a nutrire i suoi figli! L'altra categoria di oppositori si vale di un argomento d'ordine biologico o medico, il quale a prima vista sembra decisivo in favore della tesi contraria all'incremento della natalità. L'argomento consiste nel rilievo, che oggi è possibile fare facilmente, studiando un gran numero di famiglie povere assai feconde, per es., nel Mezzogiorno d'Italia, che in queste famiglie ultrafeconde una forte percentuale di figli muore per lo più nei primi anni. Nella fecondissima Spagna, per es., il Maranon, distinto medico di Madrid, dà la seguente statistica, compilata sulle numerose donne del popolo di quasi tutte le provincie di Spagna, capitate all'osservazione del grande ospedale generale di Madrid: donne, che hanno partorito più di otto figli, mortalità dei figli superiore all'80%, una vera ecatombe di bambini, com'egli si esprime; donne che hanno avuto da uno a sette figli, mortalità di questi in ragione del 65%; donne che hanno avuto da tre a cinque figli, mortalità dei medesimi del 59%. A queste cifre corrispondono quelle di Hamburger, per la Germania, secondo cui la mortalità infantile, nelle famiglie con un figlio, è del 23%, nelle famiglie con otto figli si eleva al 51%, e sale al 69% quando i figli superano i quindici.
Il Marestan dà statistiche somiglianti, sebbene meno gravi di quella spagnola, per le famiglie multipare e povere di certi dipartimenti della Francia e della Russia. Orbene, attardiamoci alquanto a considerare, con scientifica obbiettività, la genesi e la portata sociale di questo fenomeno, veramente impressionante, della grande mortalità dei figli di famiglie prolifiche, fenomeno che un cultore di statistica potrebbe senz'altro tradurre freddamente e descrittivamente in una legge crudele: la mortalità dei figli è in ragione diretta della prolificità dei genitori.
Ma si tratta, in questo caso, di una legge biologica inviolabile, ovvero di uno dei tanti perturbamenti, che sui fenomeni biologici esercitano i fattori sociali, ed in questo caso, i fattori della miseria e della negligenza igienica? Senza dubbio, la seconda di queste possibilità è la vera. Se nelle famiglie povere molto prolifiche (è ancora a dimostrare che nelle famiglie dei ricchi avvenga lo stesso fenomeno o per lo meno nella stessa misura), una metà o due terzi dei nati soccombono prematuramente, ciò si deve al fatto che, da un lato, la miseria, con la deficienza di alimentazione adatta, di aria, di luce, e di sole, favorisce la mortalità nel periodo di crescenza dei figli delle classi povere o poco agiate; dall'altro lato, è l'educazione igienica, ancora tanto insufficiente, di queste classi, per potere efficacemente proteggere le madri nel periodo di gestazione, ed i figli durante il periodo dello sviluppo, che conduce allo stesso risultato: fattori dunque eliminatali, quando, insieme col progresso economico, con una più equa distribuzione della ricchezza fra le varie categorie sociali, anche la coscienza igienica raggiungesse uno sviluppo degno di un popolo veramente civile.
E d'altra parte, dal momento che la mortalità va diminuendo in tutte le nazioni civili, e soprattutto va' diminuendo la mortalità infantile, che in Norvegia è arrivata al minimo del 4,5%, è lecito sperare che diminuirà sempre più la forte percentuale di mortalità infantile anche nelle famiglie molto feconde.
Si potrebbe ancora obiettare, che i figli di famiglie molto prolifiche, gli ultimi soprattutto, anche se non muoiono prematuramente, sono spesso di qualità scadente, o presentano facilmente tare degenerative: ma non solo esistono esempì, che smentiscono questa osservazione di alcuni così detti eugenisti, facili alle generalizzazioni di casi singoli, ma si può anzi dimostrare il contrario, cioè che sono i figli primogeniti quelli che presentano spesso la costituzione più debole in una serie di figli anche numerosa, e soprattutto presentano debolezze costituzionali i figli unici. Non è dunque affatto provato che una figliolanza numerosa esponga necessariamente i genitori al martirio di vedere rapiti precocemente la maggioranza dei nati, o di avere figli deboli o malaticci nel corpo e nello spirito. Certo che il numero è dei nati, o di avere figli deboli o malaticci nel corpo e nello spirito. Certo che il numero è potenza, solo quando al numero aumentato dei cittadini si aggiunga la buona qualità: ma, se è vero che la mortalità, anche in Italia, è discesa dal 30,8% nel 1872 al 16,6% nell'ultimo triennio, ciò dimostra come la resistenza organica della popolazione italiana, presa collettivamente, è aumentata fortemente di fronte alle cause di morte, ed aumenterà ancora più col progresso della medicina e dell'igiene; cosicché anche i nuovi nati se saranno in maggior numero, godranno dei benefici della vittoria della scienza sulle cause di malattia e di morte.
In tal modo, noi possiamo concludere serenamente che nè timori d'ordine economico, nè timori d'ordine medico-biologico in una nazione, bene organizzata e valorizzata, e ben protetta dalla scienza medica, possono paralizzare la lotta che si combatte per l'incremento della natalità.
E veniamo ora alle cause che ci sembrano le più responsabili della decrescenza delle nascite. Se, ad un esame superficiale e con una visione ristretta del fenomeno, si è potuto credere che il fattore più importante sia l'aumentato costo odierno della vita, che stimola alla limitazione volontaria della figliolanza, basterebbe per escludere l'importanza di questo fattore economico, come fattore preponderante e primario e diretto, la considerazione, che il fenomeno dell'iponatalità è comune anche alle nazioni più ricche, e soprattutto la considerazione, che sono precisamente le nazioni più povere quelle più feconde. Difatti, mentre il minimo delle nascite si verifica [?]n Francia, e secondo uno studio recentissimo di Ludovic Naudeau, lo spopolamento è massimo nei dipartimenti francesi anche rurali, in cui è aumentata l'agiatezza dei contadini divenuti proprietari, e mentre la iponatalità colpiece abbastanza gravemente l'Inghilterra e gli Stati Uniti d'America, in cui il livello della ricchezza è più elevato che in altre nazioni, che più hanno sofferto per la guerra, noi troviamo che sono precisamente le nazioni più povere, come la Russia moderna, le più prolifiche. Basta aver constatato, come lo ho potuto fare recentemente in occasione di un viaggio in Egitto, in quale stato di miseria e di quasi abbrutimento vivono i poveri contadini o fellah, che lavorano la terra bagnata dal Nilo, per convincersi che lo stato di miseria non è affatto la causa dell'iponatalità, che anzi è perfettamente vero il contrario, cioè che il numero delle nascite va diminuendo, man mano che cresce l'agiatezza delle popolazioni. Si pensi che l'Egitto, con meno di quattordici milioni di anime, cresce di 300.000 all'anno, cioè più dell'Italia con quaranta milioni; e pur avendo l'Egitto una mortalità infantile, come mi ha dichiarato un ministro di quel paese, di circa il 30%. Dunque non è possibile continuare a sostenere che la diminuzione delle nascite è effetto del disagio economico delle popolazioni. Anche uno studio dell'illustre collega Niceforo conclude che, in Italia, è oggi dimostrabile una maggiore elevazione materiale ed economica e sociale, sebbene le nascite anche da noi siano in diminuzione.
Un fatto assai interessante è quello che la iponatalità risulta una malattia dell'Occidente, e che ad essa si sottrae l'Oriente: si direbbe, che là dove spunta il sole, spunta più facilmente la vita umana. Difatti sono le popolazioni dell'Oriente europeo, come la Russia, l'Oriente balcanico, l'Egitto, e le popolazioni asiatiche (Cina, Giappone) che insieme con i negri d'America mantengono una fortissima natalità. Ed anche in Italia sono le regioni più vicine all'Oriente, come le Puglie, la Calabria e la Basilicata, che mantengono ancora l'indice di natalità elevata del 32-35%, cioè lo stesso della popolazione italiana di circa trent'anni fa.
Ora la storia — ed il Korherr, nel suo notissimo libro (Diminuzione delle nascite morte dei popoli) che Benito Mussolini ha degnato della sua prefazione, lo ha dimostrato esaurientemente — indica che col massimo grado di incivilimento di un popolo coincide la diminuzione della natalità e poi la morte. In altri termini, la iponatalità sarebbe tanto maggiore quanto più è alto il livello di civiltà di una razza o di una nazione. Applicando, per un momento, questo principio alla spiegazione del fatto suesposto, sul comportamento dell'Occidente e dell'Oriente di fronte alle nascite, noi potremmo ammettere che le nascite sono diminuite nelle popolazioni occidentali, in ragione di nn complesso di fattori legati all'incivilimento di questi popoli, mentre nell'Oriente, assai meno progredito sulla via della civilizzazione, la prolificità delle razze è ancora immutata. Se non che, per quanto questo principio abbia in sè, come vedremo, gran parte di vero, occorre bene intendersi su quello che significa incivilimento.
Pur senza far torto alle feconde popolazioni sud-orientali d'Italia, che pur marciano con le altre popolazioni della penisola sulla via del progresso civile, e certo che anche nel lontano Oriente esistono nazioni civilissime, come la nazione giapponese, e tuttavia molto feconde.
Noi crediamo che non è la vera civiltà, che diminuisce il numero delle nascite, e che la barbarie lo favorisce: ma sono alcuni fattori degenerogeni legati ali incivilimento, fattori contingenti e non ineluttabili, fattori che possono del tutto mancare in un popolo, che pur salendo nella via del progresso civile, sappia mantenersi sano ed immune dai flagelli sociali, che corrodono le radici della robustezza fisica e morale delle razze.
E cosi noi ci avviciniamo al cuore del problema causale della iponatalità.
È ben noto che questa, oltre che colpire le nazioni occidentali d'Europa e d'America, è anche più grave nelle popolazioni nordiche che in quelle meridionali: ciò vale cosi per i popoli meridionali d'Europa come per i popoli meridionali d'America: e lo stesso fenomeno è assai spiccato nel nostro paese, dove l'indice di natalità dal 32-35%, per la Basilicata, la Calabria, le Puglie, la Campania, gli Abbruzzi, scende al 23-26% per la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, la Venezia Giulia. Ora si è messo in rapporto questo fatto col carattere prevalentemente rurale delle popolazioni meridionali, e col carattere prevalentemente industriale delle popolazioni nordiche. Difatti, se un'eccezione presenta in Italia questa regola della minore efficienza produttiva di uomini da parte delle popolazioni nordiche, essa è data dal Veneto, la cui prolificità si mantiene alta, come quella del sud-Italia: ora il Veneto è precisamente tra le regioni nordiche una regione eminentemente agricola.
Ed agricole sono pure le regioni del Sud-America, la Russia e gli altri popoli slavi, l'Egitto, l'Oriente asiatico, cioè tutte le popolazioni e le razze ultrafeconde. Possiamo dunque sicuramente affermare che non la civiltà per se stessa, ma l'industrialismo occidentale nordico, (il quale, come possiamo ripetere, non va unito a decadenza economica, ma al contrario a progresso economico delle collettività), crea quel complesso di fattori di iponatalità che ora ci rimane da analizzare.
Ma prima occorre che noi diamo l'importanza che spetta, nella grande prolificità delle razze meridionali ed orientali, anche al fattore biologico sessuale di razza e di clima: poiché le ricerche moderne dimostrano come le popolazioni meridionali ed orientali maturino sessualmente, le donne soprattutto, assai più presto che quelle nordiche; e che esiste uno stato di iperovarismo e quindi di iper-fecondità di tali razze, che concorre certamente in larga misura a generare il fenomeno della loro forte prolificità, insieme colle abitudini di vita rurale, e con la mancanza delle influenze nocive della cosidetta civiltà industriale.
Io tengo però a distinguere industrialismo da urbanesimo; oggi che tanto radicata è la convinzione che l'urbanesimo sia il vero nemico della potenza demografica dei popoli, e che quindi occorra combattere con ogni mezzo l'urbanizzazione, e ruralizzare le città. Già parecchi sociologi e cultori di statistica hanno rilevato, come in molte grandi città, il numero dei nati non sia affatto inferiore a quello dei grossi centri rurali: valga l'esempio di Rolla, di Bari, di Napoli, di Venezia, di Palermo. Non è dunque l'agglomeramento urbano forse, ma soprattutto il carattere industriale di alcune grandi città (lo stesso vale per alcune intere zone industriali, anche se sfornite di popolosi agglomeramenti umani) la causa prossima della decadenza delle nascite. L'azione nociva della civiltà industriale sulla fertilità dei popoli è stata recentemente riconosciuta, per quanto riguarda l'Inghilterra, da Both Meyrith. La civiltà industriale ha portato con sè l'elevazione del livello della vita, ma anche una profonda modificazione dei costumi, l'adozione di abitudini dispendiose, la moltiplicazione dei bisogni costosi, gli abusi di consumo e di piacere d'ogni genere, una falsa comprensione del benessere sociale, un aumento dell'egoismo, e soprattutto il lavoro delle donne e dei fanciulli e la decadenza del concetto familiare.
In confronto della vita rurale e provinciale, la vita industriale e delle grandi città crea condizioni sfavorevoli ai matrimoni, e sfavorevoli alla fertilità dei medesimi, e soprattutto crea la disposizione psicologica dell'uomo, ma ancora più della donna, all'impedimento volontario dei concepimenti, e peggio ancora, all'impedimento criminoso delle nascite.
In Inghilterra, secondo Both Meyrith, vi sono due milioni e mezzo di uomini che restano celibi e tre milioni di donne che restano nubili. Centinaia di migliaia di giovanette ogni anno sono avviate a competere coll'uomo nell'industria e nei lavori d'ufficio. Da ciò deriva il risultato che queste donne non si maritano, preferiscono la vita economicamente indipendente alla dipendenza economica dall'uomo: e così milioni di uomini rimangono senza lavoro e milioni di donne senza bambini. D'altra parte, il lavoro della donna in concorrenza col lavoro dell'uomo, è certo una grande causa di diminuzione di fertilità dei matrimoni, per le classi sociali povere o poco agiate. Anche nelle famiglie delle classi operaie e della piccola borghesia, come nelle classi superiori, si preferisce la teoria del figlio unico, ovvero il matrimonio resta volontariamente infecondo, perchè la donna, che si reca all'officina od all'ufficio lungi dalla casa, finisce col trascurare il focolare domestico per l'impiego, finisce col rinunciare alla maternità, o la considera come una disgrazia: essendo poco compatibile che la donna lavori fuori di casa, e che nel tempo stesso, eserciti, completamente e con coscienza, la diuturna e faticosa funzione di madre, soprattutto di madre di parecchi figli.
Ma se la donna operaia od impiegata, creata dall'industrialismo, è portata a disertare o quasi il suo nido naturale, cioè la casa, e dedicare poco o nessun tempo alla generazione ed all'allevamento dei figli, un'altra conseguenza, d'ordine biologico, del lavoro della donna nell'officina, conseguenza che le leggi e le opere d'assistenza della madre operaia e dei loro lattanti non potranno mai riuscire ad eliminare del tutto, è l'influenza deleteria che il lavoro sia manuale che intellettuale, combinato colle faticose funzioni della gestazione e dell'allattamento, esercita così sull'organismo della madre che su quello dei figli: esso crea stati di debolezza organica o di precoce logorio dell organismo materno, e disturbi dello sviluppo e della costituzione dei teneri germogli, mal nutriti così durante la vita intrauterina come in quella postnatale. Maternità e lavoro fisico sono biologicamente incompatibili: la lemmma madre, dice il Maranon, non lavora in nessuna specie zoologica. E ve una repubblica animale, la più perfetta di quante popolano il mondo, quella delle api, nella quale si dà il caso esemplare che la femmina che prò- ciea, la repna, e esonerata da ogni altro lavoro, e le femmine operaie, non sono atte, in cambio, ad essere fecondate.
Ma non mancano inoltre a noi medici argomenti, per dimostrare pure influenza sterilizzante, sulla donna, di certi mestieri e della vita in ambienti saturi di alcuni veleni professionali. Cosi sappiamo, come le sigaraie e le operaie che maneggiano il piombo (e lo stesso vale per tutti gli altri avvelenamenti professionali) sono esposte a ripetuti aborti, ed anche, come io eredo, a diminuzione di attitudine al concepimento, a diminuita fertilità, soprattutto se si pensa alla diffusione, anche nelle donne operaie od impiegate cittadine, delle due grandi cause infettive di sterilità o di mancata fertilità dei matrimoni: la sifilide e la blenorragia.
Ma, per le donne appartenenti alle classi privilegiate dalla fortuna, e che non lavorano nè in casa nè fuori, vale la stessa dolorosa constatazione della aumentata difficoltà dei matrimoni e della aumentata sterilità o della diminuita fertilità dei matrimoni medesimi?
Senza dubbio, e forse in maggior misura ancora, prescindendo per ora dalle limitazioni volontarie e colpose della natalità.
Anche le ragazze ricche od agiate oggi si maritano più difficilmente, e le ragioni sono essenzialmente di duplice ordine: da un lato, le aumentate esigenze di vita comoda o lussuosa da parte della donna agiata che va a nozze, per cui l'ideale d'amore e della vita sana e semplice di famiglia passa spesso in secondo ordine in confronto dell'ideale di una vita coniugale, che permetta abitudini comode e lussuose. Dall'altro lato è l'uomo che, sia per il terrore del gravame economico eccessivo che porterebbe il matrimonio con una sposa pretenziosa, sia perchè egli si distacca a malincuore dalla vita di piaceri di scapolo (che i facili costumi sessuali moderni gli apprestano largamente) è assai restio a formarsi una propria legittima famiglia.
Ma occorre ancora toccare tre altri fattori di iponatalità o di non fertilità dei matrimoni delle classi borghesi e di quelle aristocratiche. Uno è costituito, secondo me, dagli eccessi della passione della donna moderna di tali classi per gli sports, sports che suppliscono, nelle classi che non hanno bisogno di lavorare per vivere, come dice il Maranon, quell'istinto all'esercizio muscolare ed al lavoro manuale, che è un vero carattere sessuale maschile originario, e non già un carattere femminile.
Per cui, la donna che coltiva, al pari dell'uomo, certi sports e ne abusa, soprattutto certi sports più propriamente mascolini, per es. il cavalcare, l'alpinismo, lo ski, il canottaggio, la bicicletta, finisce col risentire insensibilmente un danno nella sfera somatica e psichica della sua sessualità. Io posso, per esperienza, affermare che molte ipoplasie utero-ovariche delle giovinette e delle giovani signore, ipoplasie che cosi frequentemente sono causa di infecondità, di oligoparità, di scarsa figliolanza, oltre che causa di disturbi nervosi e neuropsichici, imputabili ad una insufficienza ovarica o ad altri perturbamenti glandolari endocrini, si devono a certe esagerazioni dello sport nella donna. Purtroppo la società moderna crede di poter impunemente sottrarsi al dominio di alcune ferree leggi di biologia sessuale. E fra tali leggi vi è quella per cui lo sviluppo esagerato, provocato nel sistema muscolare della donna, da certi sports i quali traumatizzano lentamente ed insidiosamente l'apparato genitale (equitazione, alpinismo, bicicletta, ski) determina una vera diminuzione dei caratteri somatici e psichici della femminilità, uno svluppo di tendenze somatiche e psichiche mascoline, una vera insufficienza dell'attività ovarica e quindi della fecondità. E' sperabile che i sostenitori incompetenti dello sport a tutto andare degnino di meditare su quello che gli studiosi delle costituzioni umane e dei problemi di biologia sessuale (e citiamo anche a nostro conforto la grande autorità di Haveloch Ellis) vanno rilevando, sui danni degli esercizi sportivi disadatti o sregolati od eccessivi, sull'organismo, e particolarmente sui caratteri sessuali femminili.
Ma il culto moderno della « maschietta », che, come dice Spengler, educa il corpo della donna non per le funzioni di maternità, ma per gli esercizi sportivi, agisce soprattutto in senso psicologico, facendo passare in seconda linea, nella mentalità della donna, il sacro sentimento della maternità, di fronte al bisogno di conservare eternamente giovane la linea del proprio corpo, di fronte alla credenza, falsa dal punto di vista biologico, che la donna madre logori la propria bellezza e la propria robustezza più precocemente che la donna, la quale eviti la procreazione ed i sacrifici che impongono le funzioni di maternità.
Questa funesta credenza, oramai profondamente radicata in moltissime donne delle classi medie e di quelle elevate è, insieme col lavoro delle donne operaie od impiegate, il secondo flagello, l'altro nemico accanito della natalità, che spinge moltissime donne alla limitazione volontaria dei concepimenti ed anche alla soffocazione di quelli già avvenuti, per cui ben mezzo milione di prodotti del concepimento ogni anno non vengono alla luce, in Francia, secondo i calcoli di Lacassagne di Lione, e circa il 30% dei concepimenti, in Italia, subiscono la stessa sorte, secondo ostetrici del valore di Micheli e Merletti.
Non fare figli, o farne uno solo al massimo, per conservare la linea elegante, per evitare l'ingrassamento, che può verificarsi per le gestazioni e gli allattamenti, per non invecchiare troppo presto! E per raggiungere questo stesso effimero ideale — forse l'unico che oggi preme di più ad una grande categoria di donne moderne — queste evitano, più che è possibile, di rimanere molte ore chiuse tra le mura domestiche, come fanno le donne che si occupano direttamente della casa e dei figli, e ciò per il timore d'ingrassare al pari delle donne degli harems! Di qui anche la smania dei massaggi e degli sports, che esse credono slancino il corpo e conferiscano a questo una maschia bellezza.
Esaminiamo questo grande principio, questo argomento in apparenza cosi solido della moderna femminilità: jl quale argomento, se veramente tornasse di sicuro vantaggio alla femminilità stessa somatica e psichica, se rappresentasse una vittoria del culto della bellezza del corpo, che ogni donna, in tutti i tempi, ha sentito come uno dei più grandi suoi doveri, e l'uomo non potrebbe in ciò darle torto, sarebbe un principio non solo legittimo, ma degno d incoraggiamento. Se non che, dal lato biologico e medico, le cose stanno diversamente. Non e vero che il corpo della donna senza figli si conservi meglio, più bello e più sano e più a lungo di quello della donna generatrice. Sono ormai ben note, e di osservazione frequente, le deformazioni estetiche — e noi medie, conosciamo pò, le alterazioni morbose più o meno latenti — che presenta l'organismo della donna, la quale rimane forzatamente nubile, soprattutto la comparsa di segni più o meno attenuati di mascolinismo e di intersessualità, e la tendenza all'adiposità, al nervosismo, all'ipertensione arteriosa, all'arteriosclerosi precoce, agli stati ansiosi, ed agli squilibri mentali: fenomeni tutti che noi medici siamo costretti ad attribuire al turbamento delle secrezioni interne, e soprattutto dell'ovaio, procurato non solo dalla forzata castità, ma dalla mancata maternità. Ed è pure facile dimostrare che le stesse alterazioni nella sfera somatica e psichica, si verificano insidiosamente, insensibilmente, nella donna maritata e sterile, nella donna che spontaneamente vede il talamo coniugale deserto di bambini, od artificiosamente, e soprattutto a mezzo di curettages ripetuti, limita ed ostacola la procreazione. Non la giovinezza persistente del corpo e dello spirito, come la povera donna si illude di poter ottenere con tale limitazione antinaturale, bensì una senescenza e flaccidità precoce del viso e dei tegumenti, espressione immediata della provocata insufficienza ovarica, bensi lo squilibrio del sistema nervoso e della psiche, che ci bensi lo squilibrio del sistema nervoso e della psiche, che ci fa assistere oggi ad un crescendo impressionante di donne, anche nelle migliori condizioni economiche e di ambiente, rovinate per loro colpa nell'equilibrio nervoso e mentale.
Bisogna avere il coraggio di gridare forte questa verità medica e biologica insieme; nell'interesse delle nostre donne stesse oltre che in quello delle famiglie e della nazione e dell'avvenire della stirpe. La natura si vendica di chi cerca sottrarsi impunemente all'unica funzione, per cui l'organismo fisico e psichico della donna è stato creato: la funzione della maternità. Ed è anche interessante monito questo ai femministi di ambo i sessi, i quali s'ostinano a misconoscere le profonde differenze sessuali ed ineluttabili (ed incomparabili con criteri quantitativi) tra l'organismo fisico e psichico dell'uomo e della donna: la constatazione cioè che la donna, la quale sia dedita al lavoro delle officine e degli uffici od agli sports mascolini, o che cerchi di soffocare le funzioni di generazione, anche quando si tratti della sola rinunzia all'allattamento, finisce col subire nella sua costituzione (come noi siamo in grado di dimostrare con esami approfonditi) una specie di deviazione del corpo e della psiche verso i caratteri mascolini: atrofia dei seni, sviluppo esagerato dei muscoli scheletrici, sviluppo dei peli a topografia mascolina, rinforzo della voce, carattere egoistico, autoritario ed aggressivo, etc. Così si arriva alla conclusione: che nè dal punto di vista della salute fisica, né da quello mentale, nè da quello estetico, la limitazione o l'impedimento volontario della figliolanza giova alla donna, che si illuda di trovare in queste pratiche antinaturali un mezzo di tutela della propria bellezza od una sorgente di libertà o di tranquillità economica e psichica. Al contrario, noi possiamo dimostrare (ed il ginecologo francese Pinard già da parecchi anni lo ha dimostrato) che un certo numero di gravidanze, Per lo più da tre a cinque, rende più perfetto e maturo, nelle forme e nelle funzioni, e quindi più resistente alle cause di malattia e di conoscenza, il corpo femminile, e ne affina tutte le qualità psicologiche più belle, come l'altruismo, Io spirito d'abnegazione, la dolcezza, la tenerezza.
Se noi ora tiriamo le somme della lunga analisi, che abbiamo fatta con coraggiosa obbiettività (ce lo perdoni il bel sesso) di tutti i fattori, più sicuramente dimostrabili, come determinanti l'attuale tendenza alla diminuzione involontaria e volontaria delle nascite, noi possiamo concludere che in questa gravissima malattia della società moderna un posto di prima responsabilità spetta alle mutate condizioni sociologiche, biologiche, e psicologiche dell'organismo femminile. Così soltanto possiamo spiegarci il fenomeno che, nei paesi, dove le donne vivono un'altra vita e pensano, per così dire ali antica, come sono i paesi dell'Oriente europeo ed asiatico, e molti paesi meridionali d'Europa, in confronto dei paesi nordici, ed in generale nelle campagne rispetto alle città ed ai grandi centri industriali, l'indice di natalità si mantiene elevatissimo. Per quanto l'uomo possa contribuire, soprattutto per convinzioni d'indole economica (il che vale quindi tutt'al più per le classi operaie e per la piccola borghesia) al fenomeno del coeidetto controllo delle nascite, è dunque essenzialmente alla donna moderna che spetta, in u analisi, e quando siano eliminati, coi progressi della terapia e dell'igiene i fattori morbosi della sterilità nei due sessi, il compito d'impedire che la ma a tia sociale del decremento delle nascite continui ad aggravarsi, conducen o, come Kohrerr e Benito Mussolini hanno altamente proclamato, alla morte dei popoli. Se le donne vorranno, se esse rinunzieranno a disertare il nido domestico per concorrere con l'uomo nel lavoro o nei piaceri sportivi, se nuncieranno soprattutto alla perniciosa superstizione, che il procreare dannoso all'estetica del proprio corpo, il male dell'iponatalità sarà in poco volgere d'anni debellato.
Ma lo stato, soprattutto lo stato italiano, ormai solidamente impiantato su basi biologiche, deve con ogni sua arma intervenire, perchè anche la donna in Italia comprenda le necessità nazionali.
E' necessario che il nostro governo non solo protegga la madre e i bambino, ma prepari le future madri: sono necessarie nuove leggi e nuove istituzioni che si occupino, un po' più che finora non sia stato fatto, del problema femminile, a cui noi crediamo in massima parte subordinato il cosidetto problema demografico. Occorre, con sapienza fascistica, dirigere formazione della donna italiana fin dalla prima fanciullezza, con un nuovo indirizzo educativo, obbligatorio nelle scuole primarie e secondarie, che miri a formare il tipo della donna di casa e della donna madre, più che il tipo della donna di scienza o della donna sportiva; ed un indirizzo educativo sessuale, che istilli diuturnamente nell'anima ingenua ed inesperta del a giovinetta il concetto del vero significato, che hanno gli attributi somatici e psichici del suo sesso, attributi tutti destinati dalla natura alla funzione materna, e che non possono, senza danno fisico e morale, essere dalla donna volontariamente rivolti a finalità egoistiche che non siano direttamente od indirettamente subordinate alle funzioni di madre.
Occore inoltre che lo stato limiti al minimo possibile il lavoro delle donne fuori della loro casa; e impedisca forse del tutto il lavoro delle gestanti e delle madri, che allattano, o che hanno bambini da accudire inferiori a due anni.
Occorre infine che lo stato e la beneficenza pubblica incoraggino con borse di maritaggio il matrimonio delle fanciulle povere, che per miseria rimangono nubili e sono costrette a contendere all'uomo i posti nelle officine e negli uffici.
Le leggi attualmente promulgate, che tendono a punire severamente le pratiche abortive, quelle che mirano a combattere l'urbanesimo e favorire la ruralizzazione, od a premiare le famiglie prolifiche od a punire con imposte il celibato, non potranno forse avere una attuazione nè facile nè efficace per l'incremento delle nascite, fino a quando il regime fascista non riuscirà a creare nuove generazioni di donne socialmente, fisicamente e moralmente simili alle nostre madri, alle donne della generazione che volge purtroppo al tramonto.
Anch'io concluderò, come recentemente hanno concluso il Kohrerr ed il Serpieri, che il problema demografico è problema di costumi e di anime, e che occorre, anche nel ruralizzare, andar cauti, per non portare il libertinaggio urbano nelle campagne, dove ancor vige nella donna lo spirito di sacrifizio per la casa e per i figli, così come vige ancora nel Mezzogiorno della nostra Italia, le cui donne feconde nulla hanno da invidiare, per sentimento e per intelletto e per bellezza, a molte donne, poco prolifiche o volontariamente infeconde, del settentrione d'Italia e d'Europa.
Hegel, il sociologo tedesco illustre, ha detto: « Non è uomo chi non è padre »: ma forse con maggiore ragione (speriamo anche con maggiore efficacia) noi potremmo dire: « non merita il titolo nobilissimo di donna, cioè di signora e regina dell'uomo e della famiglia, chi non vuole o non sa essere madre ».
Ma io sono certo che non alla donna italiana potrà rivolgersi, d'ora innanzi, questo severo monito; non alla donna della nuova Italia, che non vorrà più cedere alle suggestioni morbose, che putroppo le vengono continuamente, insieme con i capricci della moda mascolineggiante, dai grandi centri d'oltre alpe; e non vorrà sacrificare, per questa vanità esagerata ed infeconda, quella missione sacra, che a lei domandano i tre sentimenti più forti e più belli d'ogni vera anima femminile, il sentimento della famiglia, il sentimento della religione, il sentimento della patria.